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giovedì 19 giugno 2014

Motivazioni diverse da effetti sulla salute e sull’ambiente per limitare o vietare la coltivazione di OGM in Italia - Motivazione n. 1


1.                      Introduzione


  Scopo del presente contributo è quello di verificare se le moderne biotecnologie agrarie, con particolare riferimento a quelle transgeniche, rispondono ad obiettivi di sviluppo sostenibile per il territorio rurale e se contribuiscono o meno al mantenimento dell’attività agricole in aree meno dotate da un punto di vista delle capacità produttive dei terreni (aree marginali di collina e di montagna).     
Trattasi di una problematica di estrema importanza, in quanto da sempre l’agricoltura svolge un ruolo di rilievo per la nostra società. Da un lato essa è fonte rinnovabile di beni di consumo, siano essi alimentari e non, dall'altro costituisce l'unica attività che consente di "presidiare" costantemente il territorio, impedendo fenomeni di dissesto idrogeologico e fenomeni legati al degrado dell'ambiente antropizzato. In particolare, in un'ottica di sviluppo sostenibile le principali attività che l'agricoltura, e l'agricoltore, deve assicurare alla collettività possono essere riassunte nelle seguenti:
-       produzione di derrate agricole;
-       fornitura di materie prime per altri settori economici;
-       presidio del territorio;
-       manutenzione del territorio;
-       tutela della flora e della fauna;
-       conservazione della biodiversità;
-       riciclo degli effetti ambientali negativi prodotti da altre attività produttive o di consumo sul territorio (assestamento del territorio, immobilizzazione dell'anidride carbonica, ecc.);
-     conservazione del paesaggio e del territorio rurale;
-     conservazione di elementi culturali tradizionali;
-     conservazione di tecniche di trasformazione e di pratiche gastronomiche tradizionali.
Pertanto, la nostra Società ha bisogno della presenza dell’agricoltura e dell’agricoltore sul territorio rurale e dovrà adottare politiche agrarie in grado di proteggere il suo reddito, al fine di consentire la permanenza di questa attività anche in aree marginali (di collina, di montagna), che non possono certo competere sulla base dei bassi costi di produzione, ma che possono essere competitive solo sulla base di presupposti di qualità dei prodotti che offrono sul mercato. In particolare, secondo i dati dell’ultimo censimento (2010), l’agricoltura nazionale è attuata su una superficie complessiva di 30.132.858 ettari, dei quali 12.543.385 ubicati in collina (41,6%), 10.611.208 in montagna (35,2%) e 6.978.265 in pianura (23,2%). Pertanto, se escludiamo talune aree particolarmente vocate per la viticoltura o per la frutticoltura, gran parte del territorio nazionale è caratterizzato dalla presenza di una agricoltura, che potremmo definire di sussistenza, attuata in aree marginali, che non possono certo competere per produttività con quelle fertili di pianura.

Interessante, al fine di acquisire una consapevolezza dell’evoluzione in corso, è l’analisi relativa all’evoluzione del numero delle aziende agricole per zone altimetriche, secondo i dati scaturiti dai censimenti dell’agricoltura del 1982 e del 2010. Dal loro confronto si evince che complessivamente le aziende agricole sono passate nel corso di un trentennio da 3.133.118 a 1.620.884, con una diminuzione del (48,3%). In particolare, quelle di pianura sono calate del 42,2%, quelle di collina del 46,7% e quelle di montagna del 59,7%. Tale evoluzione è un segno inequivocabile della deruralizzazione del territorio rurale delle aree marginali del nostro Paese, con tutto ciò che ne può conseguire da un punto di vista della conservazione del territorio.  E’ indubbio che questa deruralizzazione sia in relazione con le difficoltà reddituali delle aziende agricole delle aree marginali, accentuate dalla concorrenza esercitata dalle produzioni di pianura e dalle importazioni provenienti da Paesi che hanno costi di produzione inferiori ai nostri.

Dalle suddette considerazioni si evince che l'aspetto economico rappresenta un elemento di estrema importanza per il mantenimento dell’attività agricola sul territorio rurale, per cui occorrerà verificare l'impatto che le moderne biotecnologie transgeniche potranno avere sul reddito dell’azienda agricola. In particolare, alcuni dubbi sorgono in merito al mantenimento della sua competitività sul mercato internazionale. L'agricoltura italiana si caratterizza per la presenza di aziende agricole di modeste dimensioni, che non possono certo permettersi l'acquisto di macchinari specifici per una determinata coltura, per un costo dei fattori produttivi molto elevato (terra e manodopera soprattutto) e per limitazioni di carattere ambientale in merito all'utilizzazione di determinati fattori della produzione (concimi, antiparassitari, ecc.). Come potrà competere la nostra agricoltura, anche se saranno introdotte le piante transgeniche, con l'agricoltura americana o argentina, dove aziende agricole di migliaia di ettari sono alla continua ricerca dell'automazione del processo produttivo (e le piante transgeniche costituiscono il primo passo per ottenerla)? Come potrà farlo, se consideriamo che il processo produttivo sarà controllato dai satelliti e dove l'intervento dell'uomo sarà quasi nullo? Trattasi di un problema reale che potrebbe contribuire alla scomparsa dell'agricoltura dai territori marginali, alimentando fortemente tutte quelle problematiche connesse alla conservazione ed alla tutela del territorio. E' senza dubbio un argomento che rappresenta una delle frontiere più interessanti e nello stesso tempo più inquietanti della vita contemporanea, uno dei campi in cui scienza, ricerca, tecnologia ed etica si intrecciano, dando vita a problematiche, spesso sconosciute, che con ogni probabilità si ripercuoteranno a lungo sullo sviluppo della nostra società e su quello delle generazioni future.




2.                      I prodotti agroalimentari transgenici: le ripercussioni tecniche


In questa sede ci si limiterà a ricordare che i prodotti transgenici sono quelli che contengono nel loro patrimonio genetico un gene (transgene), che non avrebbero mai potuto avere senza l'intervento dell'uomo. Da rilevare che il transgene immesso in queste piante può essere di origine vegetale (di specie affine o meno), di origine animale o, addirittura, sintetizzato dall’uomo. La sua presenza in un particolare organismo viene sfruttata per la sintesi proteica di cui è promotore (al momento conferimento di resistenza a diserbanti specifici o a particolari parassiti).
Come si può facilmente intuire si tratta di una tecnologia fortemente innovativa, che rende le piante simili a laboratori in grado di produrre di tutto ovunque. Con le moderne biotecnologie sarà finalmente possibile indurre nelle piante la resistenza al freddo, in modo tale da poter coltivare piante tipicamente mediterranee (agrumi, olivo, vite, ecc.) in ogni parte del pianeta; sarà possibile introdurre resistenza a fattori pedoclimatici avversi (acidità, contenuto di calcare, contenuto di sodio, ecc.) rendendo possibile l'ampliamento delle aree di produzione di qualsiasi pianta; sarà possibile "generare" piante che per fiorire hanno un ridotto fabbisogno di freddo invernale, per cui sarà possibile produrre mele e pere tipiche delle aree settentrionali anche nelle regioni meridionali della penisola; sarà possibile far produrre a piante erbacee annuali le sostanze che attualmente otteniamo dopo anni di allevamento da piante arboree (per esempio sembra che sia possibile ottenere olio di colza uguale a quello ottenuto dalla spremitura delle olive), e gli esempi potrebbero continuare ancora. E' fuori da ogni dubbio il fatto che le potenzialità di questa nuova tecnologia siano enormi e di portata tale da poter affermare che difficilmente sarà possibile operare una obiettiva e rispondente previsione degli effetti che essa potrà avere sul settore agricolo (con particolare riferimento all'azienda agricola) e, conseguentemente, sul territorio rurale, del quale l'azienda agricola è sicuramente soggetto predominante.
La possibilità di ottenere "nuovi individui" appositamente progettati e realizzati per poter resistere a condizioni pedoclimatiche avverse pone poi il problema dell'eventuale spostamento delle produzioni da quelle che attualmente sono le tradizionali aree di coltivazione e/o di allevamento, con conseguente aggravamento delle problematiche legate alla conservazione del territorio rurale. Tale nuova localizzazione potrebbe avvenire sia allo scopo, più che legittimo, di aumentare il grado di autoapprovvigionamento alimentare di una determinata regione, sia, meno legittimamente, per incentivare la produzione in aree dove è possibile reperire a più basso costo i fattori produttivi necessari ad ottenerla. In quest'ultimo caso, oltre ai problemi legati alla disoccupazione e all'esodo rurale che si verificherebbe nei territori in cui quella particolare attività viene abbandonata, inevitabilmente, un aumento dell'impatto ambientale provocato dalle operazioni di condizionamento, trasporto e ridistribuzione, necessarie per far giungere i prodotti dai luoghi di produzione ai mercati di collocamento. In questa situazione verrebbero meno anche gli elementi legati alla "tipicità" delle produzioni agricole, intendendo con questo termine il legame esistente tra tipologia del materiale di propagazione, tecnica di produzione e luogo di produzione. In particolare, con l'introduzione di organismi geneticamente modificati sarà possibile superare il limite naturale che ostacola la diffusione di determinate produzioni in ambiti a loro ostili (è il caso per esempio di gran parte delle produzioni ortofrutticole mediterranee), poichè mediante l'"ingegneria genetica" sarà possibile introdurre geni in grado di conferire alla pianta una specifica resistenza a fattori pedoclimatici avversi. E' in via di sperimentazione il conferimento della resistenza al freddo per alcune piante (per esempio nella fragola è stata ottenuta mediante l’utilizzazione di un transgene di platessa di mare) e probabilmente lo si potrà fare anche per gli agrumi, per la vite o per l'olivo. Queste ultime affermazioni pongono problematiche decisamente rilevanti per i Paesi che si affacciano sul mediterraneo:
 - cosa ne sarà degli agricoltori che attualmente ricavano un reddito da queste coltivazioni, una volta che sarà possibile ottenerle anche in altre aree del pianeta?
 - cosa ne sarà del paesaggio rurale tipico di determinati territori, allorchè la diminuita domanda di questi prodotti determinerà il loro abbandono da parte degli agricoltori?
- cosa ne sarà degli elementi di cultura tradizionali legati a determinate produzioni tipiche?
- cosa ne sarà delle tradizionali filiere legate alle produzioni agricole localizzate nell’area mediterranea (trasformazione e commercializzazione in primis)?
- quali interventi occorrerà mettere in atto per contrastare l'abbandono di queste coltivazioni, in relazione alla funzione paesaggistica e di contenimento del dissesto idrogeologico da esse determinato?

Un dato abbastanza preoccupante è che a distanza di pochi anni dall’introduzione sul mercato della prima pianta transgenica, purtroppo, le promesse non sono state per la gran parte mantenute. In particolare, taluni studi indipendenti effettuati da ricercatori indipendenti di Università americane sulla base delle esperienze acquisite dagli agricoltori dopo anni di coltivazione, hanno dimostrato che (AA.VV, 2003):
-       l’aumento produttivo non sempre si è verificato. Soprattutto per la soia vi sarebbe stata una diminuzione media del 6% circa, mentre per il mais l’aumento produttivo sarebbe limitato al 2,6%. (Benbrock, 2001; Elmore et al, 2001; Ma & Subedi, 2005). Interessanti a questo proposito sono anche le affermazioni di alcuni noti genetisti agrari italiani: “Le piante transgeniche attualmente commercializzate non alzano il tetto di produzione potenziale. A questo scopo, sarebbe necessario rimaneggiare la pianta ex novo, non limitandosi ad introdurre singoli geni ma modificando processi fisiologici che rappresentano il collo di bottiglia dell’aumento di produzione.” (Gavazzi, 2004) “(omissis) ….. è ancora da dimostrare la superiore potenzialità produttiva delle varietà GM rispetto alle varietà locali adattate in sistemi agricoli sfavoriti da condizioni climatiche ….. o edafiche avverse. In questo caso il miglioramento genetico mediante la classica ibridazione intra e interspecifica seguita da selezione, ha sempre offerto e continuerà ad offrire risultati sorprendenti ed a costi relativamente bassi.” (Scarascia Mugnozza, 2001);
-       l’uso di diserbanti non sarebbe diminuito a causa di numerosi fattori, tra i quali sono da segnalare la massiccia diffusione delle piante infestanti geneticamente resistenti alla molecola diserbante, l’acquisizione da parte di piante parentali selvatiche del gene di resistenza al diserbante, la presenza nei campi coltivati con piante transgeniche di infestazioni di altre piante transgeniche coltivate nell’annata precedente e che sono esse stesse resistenti al diserbante (la colza RR è divenuta infestante della soia RR);
-       l’utilizzazione di insetticidi non sarebbe diminuita a causa della naturale selezione di generazioni di insetti resistenti alla molecola insetticida prodotta autonomamente dalla pianta transgenica e per il fatto che altri insetti vanno ad occupare la nicchia ecologica lasciata libera dalla Piralide del mais (Diabrotica virginifera, Helicoverpa zea, ecc.);
-       la diffusione delle coltivazioni transgeniche non consente la coesistenza con altre forme di agricoltura a causa del diffuso “inquinamento genetico” provocato dal polline transgenico;



3.                      I prodotti agroalimentari transgenici: le ripercussioni economiche



Da un punto di vista economico, occorre rilevare che la temuta diminuzione dei prezzi, in relazione ad un abbattimento dei costi di produzione generati dagli individui biotecnologici, è inevitabile in agricoltura. Infatti, in questo settore economico, al contrario di quanto avviene in quello industriale che opera per la gran parte in condizioni di oligopolio, si è in presenza di un'offerta decisamente atomistica. In questa situazione l'agricoltore non è in grado di controllare il prezzo dei suoi prodotti. Allo stesso tempo, inserendo nel riparto colturale processi produttivi che consentono di abbassare i costi di produzione e quindi in grado di determinare un abbassamento dei prezzi di vendita, egli favorisce, quasi inconsapevolmente, una diminuzione del suo reddito reale. Tale eventualità è ancor più amplificata in agricoltura, in relazione alla lenta trasferibilità delle innovazioni tecnologiche. Secondo le opinioni dei promotori delle piante transgeniche, la loro introduzione dovrebbe proprio consentire una diminuzione  dei costi di produzione, in relazione all'aumento di produttività ed alla diminuzione delle  spese per  le operazioni  colturali, lasciando intendere che vi potrebbe essere un conseguente aumento dei margini di profitto.  Essi però dimenticano di considerare che  la   politica commerciale  dei "costitutori" delle piante transgeniche è per lo più di tipo monopolistica. Conseguenza ne è che essi potrebbero  spingere il  prezzo di  vendita del materiale di  propagazione, nonché quello delle materie prime necessarie per farlo produrre (diserbante o quant’altro), ad  un livello molto  prossimo all’incremento di  produttività marginale che è in grado di determinare,  con conseguente  annullamento dei  vantaggi economici per il  produttore agricolo. Essi, ancora, dimenticano che all’agricoltore non interessa “spendere di meno”, ma interessa “guadagnare di più”. A questo proposito, occorre rilevare che, purtroppo, gli attuali OT non sono in grado di determinare un maggior reddito al produttore agricolo. Infatti, l’agricoltore non è in grado di controllare il prezzo dei prodotti che vende sul mercato, per cui, se è vero che gli OT determineranno una diminuzione dei costi, è altrettanto vero che nel lungo periodo si avrà una diminuzione dei prezzi dei prodotti, con annullamento dei profitti (dalla teoria economica si desume che nel lungo periodo costo unitario medio, costo marginale e prezzo di mercato tendono all’uguaglianza). Come ci fa notare Galizzi "da un lato l'agricoltura ……… non ha alcuna facoltà di controllo del prezzo dei suoi prodotti, e……… dall'altro lato il progresso tecnico determina una riduzione dei costi unitari di produzione………. A causa di ciò i prezzi dei prodotti agricoli seguono i costi nella loro diminuzione……… cosicché viene meno il profitto che poteva essere atteso; talvolta anzi, per la lenta trasferibilità di taluni fattori produttivi impiegati dall'agricoltore, la discesa dei prezzi può continuare al di sotto del livello capace di assicurare la precedente remunerazione agli stessi fattori" (Galizzi, 1960). E’ accaduto per il “Kiwi”, per talune cv. di melo e di pesco, ma gli esempi potrebbero essere numerosi. Pertanto si può concludere che l'effetto di abbassamento dei costi di produzione e, quindi, dei prezzi di vendita dei prodotti agricoli in relazione all'introduzione di organismi transgenici, non è in grado di originare benefici durevoli al settore agricolo, anzi, il settore agricolo verrebbe a perdere di importanza nei confronti degli altri settori economici. Vi sono evidenze empiriche che dimostrano come le piante transgeniche non determinano l’auspicato incremento di reddito per l’agricoltore, anzi, a volte, favoriscono un aumento dei costi ed una difficoltà di collocamento delle produzioni ottenute, a causa della diffidenza dei consumatori nei confronti di  questi nuovi alimenti. Uno studio condotto in Georgia (Usa) ha precisamente verificato come la possibilità di ottenere un maggior reddito per l’agricoltore non sia legato all’utilizzo di sementi Ogm, quanto piuttosto alla selezione delle cultivar a più alta resa (Jost et al, 2008). L’inevitabile contrazione dei prezzi indotta dall’utilizzazione di OT può determinare una diminuzione del  reddito reale dell’agricoltore, in quanto i prezzi dei prodotti non agricoli che egli acquista sul mercato rimarranno, nella migliore delle ipotesi, costanti (se il prezzo del grano diminuisce, occorrono più quintali di grano per acquistare un’automobile, un televisore, un abito, ecc.). Addirittura, per la legge di Engel, vi è la possibilità che, in relazione ad un aumento del reddito reale del consumatore, favorito dalla diminuzione del prezzo dei prodotti agricolo-alimentari (se diminuisce il prezzo degli alimenti, a parità di reddito il consumatore può acquistare una maggior quantità di altri beni), si verifichi un aumento della domanda di beni non agricoli, con conseguente aumento del loro prezzo e conseguente ulteriore diminuzione del reddito reale dell'agricoltore. Ecco, allora, che in questa situazione l’agricoltore si sentirà “più povero”, in quanto sarà costretto a produrre di più (anche attraverso un maggior sfruttamento delle risorse naturali) per poter mantenere il precedente livello di benessere, in pratica, per mantenere lo stesso livello di potere d’acquisto. Del resto le moderne biotecnologie in agricoltura ”, incrementando  la  produttività e, soprattutto,  la  produzione agricola, tende  a  ridurre  i  prezzi  e  a   mettere  in  moto  un   processo  di  "macina  tecnologica"  che  porta,  tra l'altro,  all'espulsione  dal  mercato di una parte di agricoltori  che, nel caso in cui le   condizioni del mercato del  lavoro extra-agricolo lo rendano  possibile, si  spostano su occupazioni extra-agricole  a più alta remunerazione." (Buttel F.H., 1992).  
Ecco allora che possono venir meno le condizioni che attualmente consentono la permanenza delle aziende agricole anche in territori marginali, dove a fatica l’agricoltore riesce ancora a ricavare un certo reddito dall’attività di coltivazione delle piante e di allevamento degli animali. Cosa ne sarà dell’agricoltura attuata in territori marginali che vedranno diminuire i prezzi dei prodotti agricoli, prezzi che già ora, in molti casi, non sono in grado di fornire un pieno reddito all’agricoltore? La risposta è semplice: con ogni probabilità questi territori saranno abbandonati, con amplificazione dei problemi connessi all’esodo rurale delle famiglie contadine ed al dissesto idrogeologico del territorio. La stessa domanda si può porre in altri termni con conclusioni non dissimili: che cosa  ne sarà  dei fattori  della produzione  liberati dall'adozione degli individui  biotecnologici?  Essi,  con ogni  probabilità, potranno avere due destinazioni:
- potranno essere impiegati in altri settori economici (industriale o terziario) nel caso in cui ve ne sia la necessità;
- potranno  continuare ad  essere impiegati nell'azienda agricola,  nel caso in cui, al contrario della situazione precedente, non vi sia richiesta di tali fattori in altri settori economici.
Nel primo caso si avrebbe un aumento dell'esodo rurale, con aumento quindi delle problematiche relative al presidio ed alla manutenzione del    territorio.  Nel secondo caso si assisterebbe ad un aumento dell'offerta di  questi fattori  della produzione,  con conseguente  abbassamento delle relative remunerazioni  e creazione  di aziende agricole extramarginali; aziende che  con  la  loro  attività non   sono  più  in  grado  di  remunerare adeguatamente i fattori della produzione (in esubero) impiegati. Pertanto, come si è potuto osservare, una diminuzione dei prezzi dei prodotti agricoli non giova certo al settore agricolo, che vedrebbe diminuire il suo peso economico a favore di altri settori economici.
Qualcuno potrebbe affermare che il precedente scenario economico è in contrasto con quello che è accaduto in alcuni Paesi (U.S.A., Canada, Argentina), nei quali, a “testimonianza del gradimento degli agricoltori”, si è avuto un forte incremento delle superfici destinate alla coltivazione di piante transgeniche. A tal riguardo occorre osservare che l’incremento delle superfici si è avuto solo nei Paesi in cui si è in presenza di un’unica filiera di distribuzione per il medesimo prodotto, sia esso transgenico o  non transgenico. In presenza di un’unica filiera, e con prezzi flettenti dei prodotti così come si è verificato per la soia e per il mais transgenici, è ovvio che se l’agricoltore vuole conservare un certo margine di redditività dall’attività di coltivazione, sarà “costretto”, anche suo malgrado, a seminare le cultivar caratterizzate dal minor costo di produzione (ovvero quelle transgeniche). Ecco allora che l’incremento delle superfici coltivate è dovuto, non tanto ad un gradimento dell’agricoltore nei confronti di queste piante, ma alla necessità da parte dello stesso di mantenere un certo margine di redditività dall’attività agricola (è ovvio che se il prezzo del mais transgenico è uguale a quello del mais convenzionale, egli coltiverà quello caratterizzato dal minor costo di produzione, ovvero quello transgenico).
Il minor reddito per il produttore agricolo è anche conseguenza del fatto che gli OT sono sostanzialmente disattivanti nei confronti dei fattori della produzione che egli apporta direttamente (manodopera soprattutto) e richiedono, nello stesso tempo, un maggior apporto di fattori esterni all’azienda agricola, fattori produttivi di origine industriale (sementi che offrono dei vantaggi ma che costano di più e fattori produttivi in grado di far produrre le stesse sementi), che l’agricoltore è costretto ad acquistare sul mercato. A questo riguardo Vellante ci fa notare che "…cambiano a seconda delle tecnologie utilizzate anche i rapporti di scambio tra settore primario e resto dell'economia accelerando o attenuando i rapporti di subordinazione dell'agricoltura. In generale lo sviluppo di un progresso tecnico labour-saving tende a redistribuire l'incremento del reddito conseguito con l'aumento della produttività del lavoro, in favore dei detentori del capitale fisso di esercizio. Rispetto ai rapporti di scambio con il settore industriale l'adozione di queste innovazioni rende dipendente e subordinata l'agricoltura non solo per la necessità di ottenere i mezzi tecnici indispensabili per l'attivazione del processo produttivo, ma anche per il fatto che l'industria manifatturiera commercializza i propri beni in condizioni di oligopolio realizzando dei superprofitti a spese del settore primario." (Vellante S., 1983). Questa situazione è particolarmente dannosa per le aziende agricole di modeste dimensioni come quelle italiane, nelle quali il lavoro manuale rappresenta ancora una componente importante del reddito netto derivante dall’attività agricola. Una  politica di  questo  tipo,  operata soprattutto dall'industria produttrice dei mezzi tecnici per  l'agricoltura, è nota  come politica di "appropriazionismo",  mediante la  quale viene perseguita "una  strategia che mira  ad aumentare  il grado  di industrializzazione  del processo   produttivo  agricolo  tramite l'espropriazione  di  attività tradizionalmente svolte all'interno  dell'azienda agricola e la loro sostituzione con  input di origine industriale." (C. Salvioni, 1991).   Anche in  questo caso si  assisterebbe ad  una perdita di importanza del settore agricolo, che vedrebbe diminuire il  fabbisogno di manodopera,  per lo più  di tipo familiare, necessario  per portare a termine  le produzioni,  con   conseguente  aumento   delle  problematiche   relative  all'esodo rurale  ed al  presidio ed alla  conservazione del  territorio. A questo proposito possiamo affermare che, soprattutto per le coltivazioni erbacee annuali, la semente biotecnologica potrebbe rappresentare il primo passo per consentire la completa automazione del processo produttivo agricolo (piante autosufficienti, resistenti a tutti i tipi di malattie e che crescono ovunque), un processo produttivo che sarà controllato dai satelliti,  che non avrà più bisogno dell’agricoltore o, per lo meno, ne avrà bisogno in modo molto limitato. E’ in questo contesto, ovvero in un contesto in cui il reddito da capitale prevarrà sul reddito fornito dagli altri fattori produttivi (terra e lavoro che molto spesso sono di proprietà dello stesso imprenditore agricolo), che si creano i presupposti per il passaggio del controllo del territorio rurale dall’agricoltore, che non riesce più a ricavare un reddito adeguato dall’attività agricola poiché i fattori della produzione di cui dispone non sono più necessari e quindi non sono più remunerati, ad individui estranei all’attività agricola, che con i propri capitali, o con i capitali di terzi, saranno in grado di subentrare non soltanto nell’attività di coltivazione, ma anche nella proprietà delle aziende agricole.  Tale situazione, inevitabilmente, darà origine a gravi problemi di sostenibilità del territorio rurale, in quanto le tecniche di produzione che questi “nuovi agricoltori” adotteranno saranno sicuramente indirizzate alla massimizzazione del reddito da capitale da loro stessi fornito.



4.                      Quale nuovo agricoltore e quale nuova agricoltura?


Con  l'introduzione di  individui geneticamente modificati l'agricoltore   potrebbe  perdere parte delle funzioni imprenditoriali, poichè  "con  l'annessione   industriale di  importanti tecniche.......,  gli agricoltori  perderanno  la   possibilità  di  organizzare il processo  produttivo secondo  la propria iniziativa.  Non  saranno più   imprenditori, ma "lavoratori  all'aria aperta" che producono  materia   prima   per    l'industria   di   trasformazione." (Ruivenkamp G., 1992).  Ecco che in questo contesto verrà ad assumere sempre più importanza il settore industriale, quale  fornitore del materiale di  propagazione (semente transgenica resistente ad un determinato diserbante) e dei mezzi tecnici necessari  per portare  a  termine  il processo  produttivo (diserbante complementare alla semente transgenica),  nonchè quale utilizzatore  del prodotto  agricolo ottenuto.  In  particolare, "sarà  sempre più  possibile modificare  il  pacchetto  di  informazioni  genetiche  che  controllano  la   crescita  delle  piante  e  le loro  reazioni  nei  riguardi  dell'ambiente.   I programmi di  riproduzione  renderanno  l'agricoltura sempre  più indipendente  dall'ambiente  naturale.  Il raccolto  agricolo non  sarà più  determinato fondamentalmente  dalle specifiche  condizioni   naturali  (natura  del suolo,  clima,  ecc.)  ma dall'ammontare  delle conoscenze scientifiche e  tecnologiche che sono incorporate  nei prodotti di base  (sementi, metodi di difesa), destinati a determinare  dove, come  e  quando   l'agricoltore deve seminare, raccogliere  e quali  cure deve dedicare  alle sue colture." (Ruivenkamp G., 1992).
Secondo alcuni sostenitori degli OT l’aumento del reddito dell'agricoltore potrebbe derivare da una differenziazione dell'offerta verso produzioni diverse dalle attuali caratterizzate da un maggior valore aggiunto (alimenti con più proteine, più vitamine, meno calorie, partenocarpia, piante che producono principi attivi farmaceutici, ecc.). Tali opportunità di guadagno per il settore agricolo si potranno verificare, però, solo se il mercato del prodotto sarà "libero", poiché, nel caso, molto più realistico, in cui la coltivazione fosse attuata "su contratto", i maggiori guadagni sarebbero quasi esclusivamente a favore di colui che detiene il brevetto della pianta transgenica, che “appalterà” (con un contratto simile a quello di soccida per gli animali) la coltivazione e pagherà l’agricoltore sulla base delle operazioni colturali necessarie per portare a termine il ciclo produttivo.
A proposito delle precedenti affermazioni, occorre rilevare che l'introduzione di  individui geneticamente  modificati potrebbe  comportare anche  una diminuzione dell'importanza di questo settore economico in  relazione alle   strategie  di  "sostituzionismo" messe  in  atto dal  settore  industriale  legato  alla  trasformazione dei  prodotti agricoli.  In  particolare,  la  "possibilità  recentemente  offerta dalle  biotecnologie  avanzate di  intervenire sulla  base organica    del   processo  produttivo  agricolo,  manipolandola   e controllandola,  consente per  la prima  volta di  rimuovere l'ostacolo che ha finora   impedito  la  completa  industrializzazione  del processo  produttivo agricolo  e la  produzione  industriale di  materia  organica,  in tal  modo permettendo l'unificazione delle varie fasi di produzione di   prodotti alimentari in un  unico processo produttivo di tipo    industriale."  (C.  Salvioni,  1991).  Questa  opportunità è resa  possibile  dallo   sviluppo  di  organismi  fortemente specializzati  nella produzione  di  materie  prime di  base  (vitamine,  carboidrati,   grassi,  ecc.).    Tali  sostanze   potranno poi  essere utilizzate dall'industria  per produrre  beni alimentari e non.
Per lo "sviluppo sostenibile" della nostra agricoltura occorrerà poi rivedere le norme relative alla brevettabilità dei prodotti transgenici, in quanto non è possibile accettare che colui che ha inserito un gene in una pianta acquisisca il “monopolio di fatto” su quella pianta, impedendone, così, la libera coltivazione. Tale affermazione è supportata dalla considerazione che, nel momento in cui la pianta transgenica sarà considerata uguale a quella “non transgenica” (ovvero si originerà un’unica filiera distributiva), anche gli agricoltori che in un primo momento non erano intenzionati a coltivarla saranno “obbligati” a farlo, in quanto saranno costretti ad operare in un mercato in cui il prezzo di quel prodotto sarà commisurato al costo di produzione (più basso) della pianta transgenica. Pertanto, se essi vorranno mantenere un certo margine di redditività, dovranno riconvertire le produzioni convenzionali verso quelle transgeniche. Ecco che “di fatto” si potrebbe creare un monopolio per il mercato della semente di quella pianta.
A proposito di brevetto occorre considerare anche la diminuzione di potere contrattuale dell'agricoltore, in relazione alle possibili strategie economiche che si prospettano per colui che è "proprietario" della semente transgenica. In particolare, il detentore del brevetto:

-       potrebbe limitarsi a richiedere il pagamento di una royalty per ogni chilogrammo di semente venduta, lasciando libertà di scelta all’agricoltore in merito alle diverse opportunità di vendita sul mercato del prodotto ottenuto (è quello che avviene oggigiorno per la gran parte delle sementi);
-       potrebbe andare oltre e richiedere il pagamento di una royalty, oltre che per ogni chilogrammo di semente, anche per ogni chilogrammo di prodotto ottenuto da quella semente e immesso sul mercato (avviene già per talune coltivazioni);
-       egli potrebbe non accontentarsi ancora e potrebbe riservarsi la proprietà della produzione finale, attuando la produzione per conto proprio, sulla base di un rapporto contrattuale con l’agricoltore (avviene già per talune coltivazioni). E' ovvio che in una situazione come questa l'agricoltore diverrebbe esclusivamente un prestatore di manodopera, con conseguente perdita delle prerogative imprenditoriali. Da rilevare poi che con una strategia di questo tipo il monopolista otterrebbe due grandi vantaggi. In primo luogo egli metterebbe in concorrenza tra di loro gli agricoltori per accaparrarsi la commessa di coltivazione, con conseguente abbassamento del costo delle lavorazioni meccaniche, in secondo luogo egli diverrebbe monopolista di quell’alimento, con tutte le conseguenze del caso.

Ma il grande salto di qualità per le ditte che detengono il brevetto, potrà essere ottenuto allorquando la manipolazione genetica sulle piante consentirà di sfruttare l’”apomissi o apomissia”, ovvero la possibilità di originare piante identiche alla madre anche nel caso di riproduzione sessuata. In particolare, lo sfruttamento dell’”apomissia” consentirà alle ditte sementiere  di  evitare la produzione e la successiva commercializzazione del seme, mantenendo comunque la possibilità di ricavare le royalty dal seme; il seme, una volta distribuito, potrà essere prodotto autonomamente di anno in anno dall’azienda agricola (sarà costituito da una parte del raccolto), la quale, mediante un apposito contratto di sfruttamento della semente, sarà tenuta a pagare le royalty al detentore del brevetto ogni qual volta la utilizzerà. L’”apomissia” semplificherà notevolmente la vita al detentore del brevetto, che dovrà attuare un’unica operazione: incassare le royalty ogni volta che il cibo viene prodotto. Qualcuno afferma che questo scenario è irrealizzabile, in quanto alle ditte sementiere non converrebbe mettere sul mercato una semente apomittica, poiché aumenterebbero le frodi e occorrerebbe mettere in atto un sistema di vigilanza decisamente costoso. Purtroppo queste affermazioni si scontrano con la realtà, in quanto le grandi multinazionali del seme stanno cercando di evitare questo inconveniente mediante la creazione di una “Apomissia inducibile chimicamente”. In pratica, che cosa accade? Accade che la semente apomittica origina un seme in grado di originare una  pianta identica alla madre solo in presenza di una sostanza chimica che sarà venduta a parte. Da rilevare che tutto questo non è fantascienza, in quanto il brevetto sull’”Apomissia inducibile chimicamente” è già stato richiesto (http://www.ptodirect.com/Results/Publications?query=IN/(Russinova-Eygeniya).

Il brevetto su una pianta potrebbe poi consentire ai Paesi che ne detengono la proprietà di attuare le coltivazioni in località prossime ai mercati di collocamento, rendendo così competitive produzioni che attualmente sono penalizzate dagli elevati costi di trasporto e di commercializzazione, evitando nel contempo le problematiche ambientali che queste coltivazioni potrebbero comportare se fossero attuate sul loro territorio. Per alcune produzioni agricole questo già avviene. Cos’è accaduto? Alcuni Paesi, vuoi perché non hanno condizioni pedoclimatiche favorevoli, vuoi perché non sarebbero concorrenziali sul nostro mercato a causa degli elevati costi di trasporto, stanno producendo sul nostro territorio, su base contrattuale, alcuni prodotti dei quali detengono il brevetto; tali prodotti al momento della raccolta diverranno di loro proprietà. Ecco che in questo modo qualsiasi Paese, anche senza alcuna vocazionalità produttiva, e, al limite, senza disponibilità di territorio agricolo, di strutture e di competenze agricole specifiche, potrebbe divenire un protagonista nel mercato del cibo; la produzione sarebbe attuata nel nostro Paese dai nostri agricoltori su base contrattuale per conto di colui che ha il brevetto sul materiale di propagazione, che si approprierà del valore aggiunto di questa coltivazione.
I precedenti scenari costituiscono per l’agricoltura del nostro Paese un vantaggio o uno svantaggio? Si adattano a tutte le coltivazioni o solo a quelle brevettate? E il consumatore otterrà dei vantaggi o degli svantaggi? Occorre rispondere a queste domande prima di effettuare delle scelte che potrebbero rivelarsi irreversibilmente controproducenti per l’agricoltura del nostro Paese.


5.      – Alcune conclusioni


Se da  un lato il tipo di  sviluppo portato  avanti in   questi  ultimi anni,  improntato soprattutto  all'esasperata  ricerca del massimo profitto,  ha consentito di massimizzare la produttività dei fattori della produzione impiegati (terra, lavoro   e capitale), dall'altro non è sempre stato in grado di garantire sia un'equa ripartizione delle produzioni  tra le  diverse  aree  del  pianeta,   sia  modalità  di  produzione compatibili con l'esigenza di  salvaguardare  l'ambiente  e la salute dei cittadini.
E'   auspicabile che   le  moderne   biotecnologie  in   agricoltura,   così  come   gran  parte  delle  innovazioni  tecnologiche  introdotte   in  questo   secolo  (diserbanti,  insetticidi, anticrittogamici,  regolatori   di  crescita, ecc.),  non   siano  viste   come  un ulteriore  strumento "necessario" per incrementare la  produttività del lavoro in agricoltura, a scapito, ancora una volta, dell'ambiente.  Se  si parte dal presupposto che occorra incrementare il reddito da lavoro in  agricoltura, mantenendo  inalterato o, meglio, abbassando il  prezzo di    vendita   dei prodotti agricolo-alimentari,  affinchè,  con   motivazioni  di  tipo  ricardiano, il consumatore incrementi il suo reddito reale e possa così destinare la parte eccedente ad altri consumi non primari,  l'"individuo   biotecnologico"  diventa  strumento   fondamentale per attuare tale strategia.
A questo  punto però, anche sulla  base delle considerazioni precedenti, occorre  valutare attentamente se    la  sua introduzione  risponde  a  presupposti di  "sviluppo sostenibile", sia da un punto  di vista dei "reali vantaggi"         ottenibili dall'attuale società  e dalle generazioni future,   sia da un punto di vista dei "reali vantaggi" ottenibili dal   settore agricolo.
Occorre rilevare poi che in un futuro ormai prossimo, le nostre produzioni dovranno confrontarsi con quelle provenienti da Paesi caratterizzati da costi di produzione decisamente inferiori ai nostri, da Paesi che non hanno limitazioni nell’utilizzazione di determinati prodotti chimici, siano essi concimi e/o antiparassitari, da Paesi nei quali il lavoro minorile non è tutelato o è, addirittura, incentivato e/o sfruttato, da Paesi che non saranno in grado di garantire il materiale genetico da cui deriva la produzione e l’elenco potrebbe continuare ancora. Ecco allora che nei prossimi anni i problemi per l’agricoltura nazionale deriveranno con ogni probabilità anche dalla globalizzazione dei mercati e dalla conseguente realizzazione di un grande mercato mondiale dei prodotti alimentari, un mercato dove con ogni probabilità l’imperativo sarà produrre di più (non importa con quale tecnica e/o con quale materiale genetico) ai più bassi costi possibili, per poi vendere i prodotti ottenuti laddove ci sono i soldi per acquistarlo.
In un contesto come quello delineato occorre chiedersi: ma i bassi costi e la globalizzazione dei mercati si conciliano con la qualità della produzione da tutti auspicata? Si adattano alla necessità di assicurare un reddito anche agli agricoltori delle aree “svantaggiate” da un punto di vista dei costi di produzione? Si conciliano con lo sviluppo sostenibile del territorio? Riescono a preservare l’identità culturale, economica, sociale e professionale di un territorio?
E’ a queste domande che occorre fornire una risposta, al fine di verificare se nel lungo periodo gli OT e il conseguente processo di globalizzazione dei mercati rappresenti per il territorio rurale del nostro Paese un’opportunità o, al contrario, una strada pericolosa, che potrebbe determinare effetti dannosi per il benessere della nostra società e per quello delle generazioni future.
Pertanto, le problematiche relative all'introduzione di coltivazioni transgeniche di prima generazione sono notevoli e di portata tale da non giustificare una decisione affrettata. In particolare, come per le altre innovazioni tecnologiche, la loro applicazione può essere buona, mediocre o, addirittura, cattiva. Per il momento, le moderne biotecnologie hanno riguardato solo ed esclusivamente applicazioni finalizzate all'automazione del processo produttivo agricolo. In particolare, l’adozione di questa tecnologia è avvenuta senza prima verificare se vi possano essere delle controindicazioni sia da un punto di vista degli effetti biologici che essa può determinare (sulla salute umana, sugli ecosistemi, sulla biodiversità, ecc.), sia da un punto di vista degli effetti economici che la sua applicazione può avere su sistemi produttivi agricoli sensibili come quelli presenti nel nostro Paese. Certamente la nostra agricoltura da sempre basata su presupposti di tipicità e di qualità non ha bisogno dell'attuale biotecnologia, che per essere considerata sostenibile dovrebbe avere possibilità applicative decisamente migliori.
Occorrerà poi valutare attentamente se questi "nuovi alimenti" rispondono ad una reale esigenza del consumatore. Soprattutto nell'attuale momento in cui quest'ultimo tende a privilegiare la tipicità, la salubrità e, più in generale, la naturalezza dei prodotti alimentari (il forte aumento del consumo di produzioni biologiche ne è una conferma), si può affermare che il loro sviluppo è sicuramente controtendenza. Una controtendenza che andrà valutata attentamente, al fine di non impiegare risorse e capacità umane nello sviluppo di produzioni delle quali, per il momento, non abbiamo una reale necessità.
In definitiva, compito dell’attuale generazione, se veramente crede che questa tecnologia possa essere determinante per lo sviluppo sostenibile, è quello di fugare ogni dubbio applicativo, in ossequio al principio di precauzione, demandandone l’applicazione in campo aperto alle future generazioni.