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domenica 27 gennaio 2013

Le attuali piante OGM non mantengono le promesse agronomiche


Per alcuni Paesi la coltivazione di Organismi Transgenici (OT, OGM) è già una realtà. In questi Paesi, infatti, vige il concetto di “sostanziale equivalenza”, per cui gli alimenti ottenuti da piante transgeniche non sono soggetti a preventive e laboriose analisi di tipo tossicologico e possono essere venduti sul mercato insieme a quelli convenzionali, senza nessuna etichettatura che possa eventualmente consentire al consumatore di operare una scelta consapevole (il mais è mais, sia esso transgenico o convenzionale), ovvero anche quella di non consumarli (in questa situazione, di non etichettatura, i consumatori sono obbligati a consumarli inconsapevolmente). Il fatto di considerare gli alimenti transgenici sostanzialmente equivalenti a quelli convenzionali, ed in presenza di una unica filiera di distribuzione senza etichettatura degli alimenti, ha determinato un’esplosione delle superfici destinate alla coltivazione di piante transgeniche. Infatti, in presenza di un’unica filiera, e con prezzi flettenti dei prodotti agricoli così come si è verificato per la soia e per il mais transgenici, è ovvio che l’agricoltore che ha voluto conservare un certo margine di redditività dall’attività di coltivazione, è stato “costretto”, anche suo malgrado, a seminare le cultivar caratterizzate dal minor costo di produzione (ovvero quelle transgeniche). Ecco allora che in questi Paesi, dove non c’è separazione tra alimento convenzionale e transgenico, l’incremento delle superfici coltivate a OT è dovuto, non solo ed esclusivamente ad un gradimento dell’agricoltore nei confronti di queste piante, ma anche alla necessità da parte dello stesso di mantenere un certo margine di redditività dall’attività agricola (è ovvio che se il prezzo del mais transgenico è uguale a quello del mais convenzionale, l’agricoltore sceglierà di coltivare quello caratterizzato dal minor costo di produzione, ovvero quello transgenico).

         Da rilevare che in questi Paesi, dove non c’è separazione di filiera, a distanza di una ventina di anni dall’introduzione in campo aperto di piante transgeniche, numerosi effetti agronomici negativi, preventivati a suo tempo da alcuni studiosi, si sono, purtroppo, manifestati, vanificando in parte gli effetti miracolosi previsti da altri studiosi. Tali effetti, che saranno di seguito descritti, sono stati per la gran parte osservati anche da ricercatori indipendenti di Università americane, che hanno voluto indagare sulle reali capacità produttive a agronomiche di queste piante.
         Relativamente alle piante resistenti ai diserbanti totali, esse dovevano rappresentare lo strumento in grado di semplificare decisamente le pratiche agronomiche: un unico trattamento diserbante per liberare il campo coltivato da tutte le erbe infestanti. Purtroppo, la realtà è un’altra, in quanto:

-              l’utilizzazione continua sullo stesso campo coltivato dello stesso diserbante, dello stesso disseccante, ha determinato la selezione delle piante infestanti che sono geneticamente resistenti al diserbante, per cui dopo alcuni anni esse hanno occupato la “nicchia ecologica” lasciata libera dalle piante più sensibili al diserbante. E’ ovvio che per controllare queste piante si è reso necessario ricorrere ad altri diserbanti, mediante l’utilizzazione di specifiche miscele;


-               le piante parentali selvatiche hanno acquisito per impollinazione incrociata da parte del polline transgenico, il transgene che conferisce resistenza al diserbante, divenendo così esse stesse resistenti al diserbante o ai diserbanti, in quanto in uno stesso Paese sono state introdotte piante della stessa specie resistenti a tipologie diverse di diserbante;



-              nel caso in cui siano state attuate le rotazioni colturali, le piante transgeniche coltivate in una annata agraria (per esempio colza RR o soia RR) sono divenute esse stesse infestanti di altre piante transgeniche coltivate in annate successive (la colza RR, nell’annata successiva alla sua coltivazione diviene infestante della soia RR o del mais RR). Cos’è avvenuto? Molto semplicemente durante la raccolta di piante coltivate OGM HT qualche seme cade sempre a terra e germina nell’annata successiva. Il problema si presenta solo nel caso in cui vengano effettuate rotazioni colturali: alla colza HT segue la soia HT. Come potrà essere diserbato il campo coltivato se la pianta infestante e la pianta coltivata sono resistenti allo stesso diserbante?



Come si è potuto notare, l’introduzione delle piante transgeniche resistenti ad un diserbante totale non ha semplificato la risoluzione del  problema relativo al contenimento dei danni causati dalle piante infestanti, anzi sotto certi punti di vista lo ha peggiorato, in quanto ha dato origine a “nuove piante” infestanti, che presentano delle resistenze genetiche che prima non erano presenti.

Anche le  piante transgeniche resistenti agli insetti presentano degli inconvenienti, che hanno determinato un cambiamento nelle pratiche agronomiche adottate nella loro coltivazione. In particolare, consapevoli del fatto che gli insetti dopo alcune generazioni maturano una resistenza genetica alla tossina transgenica, è stato consigliato agli agricoltori di coltivare ogni 100 ettari di Mais BT una aliquota variabile dal 20% al 50% di Mais convenzionale (aree rifugio), al fine di evitare la pressione selettiva di individui resistenti.
A cosa servono le “Aree Rifugio”? Sono aree coltivate a mais convenzionale (fino al 50% della superficie coltivata a Mais Bt se ci si trova in un’area ad alta concentrazione di coltivazioni di mais e cotone), allo scopo di evitare che soggetti di piralide resistenti alla proteina BT localizzati nel campo di mais BT vadano a fecondare altri soggetti resistenti, sempre localizzati nel campo di mais BT, dando così origine ad una progenie resistente. Il giochetto è presto spiegato: se noi accanto ad un campo di mais BT mettiamo un campo di mais convenzionale, con ogni probabilità nel campo di mais BT si selezioneranno insetti resistenti alla tossina BT, mentre nel campo convenzionale ci saranno soggetti non resistenti. L’esclusiva presenza di coltivazioni di mais BT avrebbe determinato una forte presenza di soggetti resistenti, che incrociandosi tra di loro avrebbero dato origine ad una  progenie di insetti resistenti. Mettendo accanto al campo di mais BT un campo di mais convenzionale, la formazione di progenie di piralide resistente alla tossina BT è notevolmente rallentata, non evitata, in quanto insetti resistenti provenienti dal campo di mais BT, possono fecondarsi con soggetti non resistenti provenienti dal campo di mais convenzionale (ovviamente, in questo modo la creazione di progenie resistenti è rallentata, ma non evitata).
Anche in questo caso l’introduzione di piante transgeniche resistenti agli insetti (OGM BT) non ha risolto completamente il problema e non ha semplificato la coltivazione di queste piante. In particolare:

-              molto spesso gli agricoltori non hanno seguito il consiglio delle ditte sementiere, per cui non hanno messo in atto la strategie delle “aree rifugio”;

-              coloro che hanno creato le “aree rifugio” hanno dovuto adottare due specifiche tecniche di coltivazione per lo stesso prodotto, in quanto la parte coltivata con piante convenzionali deve essere trattata in modo diverso da quella coltivata con piante transgeniche.

In conclusione, alle considerazioni effettuate sulle piante transgeniche resistenti agli insetti, occorre chiedersi se quello delle “aree rifugio” è un modello produttivo adatto all’agricoltura italiana, che, come è risaputo, è costituita da aziende di modestissima dimensione (6-7 ettari), dove non è raro incontrare campi coltivati a mais o a soia dell’ordine di poche decine di migliaia di metri quadrati.  

Taluni studi indipendenti effettuati da ricercatori di Università americane avrebbero poi verificato che non è sempre vero che le piante transgeniche producono di più. In particolare, indagini effettuate su migliaia di ettari coltivati, hanno verificato che la soia transgenica produce meno di quella convenzionale (dal 6% all’11% in meno), mentre si avrebbe un aumento del 2,6% nella produzione del mais BT (non in grado di compensare l’aumento di costo della semente transgenica, pari al 40% in più rispetto a quella convenzionale). Tra le motivazione addotte per giustificare questo livello di produttività, si ricordano:

-              nella trasformazione genetica sarebbero state utilizzate cultivar meno produttive;

-              si sarebbero manifestati effetti negativi metabolici nella pianta a causa della modificazione genetica;

-              vi sarebbero stati effetti collaterali dannosi dovuti al diserbante totale;

-              le piante transgeniche sarebbero più suscettibili all’attacco di altri parassiti (funghi, per esempio).

A proposito dell’incremento produttivo, interessanti sono anche le affermazioni di alcuni noti genetisti agrari italiani: 

-         “Le piante transgeniche attualmente commercializzate non alzano il tetto di produzione potenziale. A questo scopo, sarebbe necessario rimaneggiare la pianta ex novo, non limitandosi ad introdurre singoli geni ma modificando processi fisiologici che rappresentano il collo di bottiglia dell’aumento di produzione.” [Gavazzi G., Università di Milano]. 

-         “(omissis) ….. è ancora da dimostrare la superiore potenzialità produttiva delle varietà GM rispetto alle varietà locali adattate in sistemi agricoli sfavoriti da condizioni climatiche …… o edafiche avverse. In questo caso il miglioramento genetico mediante la classica ibridazione intra e interspecifica seguita da selezione, ha sempre offerto e continuerà ad offrire risultati sorprendenti ed a costi relativamente bassi.” [Scarascia Mugnozza G.T., Università di Viterbo].

Un decennio di coltivazione di piante transgeniche in alcuni Paesi ha poi dimostrato che la coesistenza tra forme di agricoltura convenzionali e transgeniche è difficile, se non addirittura impossibile. Diffusi sono i casi di inquinamento genetico di campi coltivati con sementi convenzionali, numerosi sono i contenziosi tra agricoltori e ditte che hanno il brevetto su queste piante, che pretenderebbero il pagamento delle royalty. Emblematico a questo riguardo è il caso di un agricoltore canadese, che inconsapevolmente (probabilmente a causa di un inquinamento accidentale della semente convenzionale o, più semplicemente, a causa del polline trasportato dal vento), avrebbe ottenuto un prodotto in parte transgenico dalla semina di materiale convenzionale. Con una specifica sentenza, un giudice lo avrebbe condannato al pagamento dei danni nei confronti di una ditta sementiera, per aver seminato materiale transgenico senza aver pagato le relative royalty. Ovviamente  non siamo in grado di entrare nel merito della sentenza, in quanto le affermazioni dell’agricoltore potrebbero anche non essere vere, ma il problema esiste ed è reale, in quanto, soprattutto nel caso di piante che hanno parentali selvatiche, si pone il problema dell’impollinazione incrociata, che potrebbe compromettere l’integrità genetica del prodotto convenzionale ottenibile dalla semina di materiale convenzionale. Certo è che la sentenza emessa dal giudice canadese costituisce un precedente di una certa rilevanza, in quanto la ditta detentrice del brevetto su quella pianta potrebbe ottenere un vantaggio da un inquinamento genetico da essa stessa determinato, a prescindere, quindi, dalla volontà del singolo agricoltore di intraprendere o meno quella coltivazione.
Ad aggravare la situazione relativa alla coesistenza concorre anche l’inevitabile inquinamento genetico che può verificarsi nelle diverse fasi della “filiera produttiva”. In particolare, al di là del caso in cui il seme presenti anche una modesta percentuale di materiale transgenico, la contaminazione di prodotto transgenico nei riguardi di prodotto convenzionale potrebbe avvenire nei seguenti casi:

-                           durante la fase di crescita e di maturazione delle piante, nel caso in cui le produzioni convenzionali si trovino a confinare con produzioni transgeniche;

-                           durante la raccolta, nel caso in cui siano utilizzate macchine che precedentemente erano state utilizzate per la raccolta di prodotto transgenico;

-                            durante il trasporto nel caso in cui siano utilizzati mezzi di trasporto che precedentemente erano stati utilizzati per il trasporto di prodotto transgenico;

-                            durante la conservazione del prodotto, nel caso cui siano  utilizzati gli stessi magazzini e/o gli stessi silos destinati alla conservazione di  prodotto transgenico;

-                            durante i processi di lavorazione del prodotto, nel caso in cui vengano  utilizzate le stesse macchine per la lavorazione del prodotto transgenico e quello convenzionale;

-                            durante la fase di distribuzione al dettaglio, soprattutto nel caso in cui il prodotto non sia confezionato.

Come si è potuto osservare numerose sono le occasioni di inquinamento genetico degli alimenti, a prescindere dal fatto che per la loro produzione sia utilizzato o meno semente inquinata da OGM. A questo proposito, dobbiamo dire che nei Paesi che per primi hanno adottato alimenti transgenici, il primo, presunto, incidente alimentare causato da OGM si è già verificato. Negli U.S.A. una partita di STARLINK, un mais transgenico autorizzato solo per l’alimentazione animale perché ritenuto allergenico per l’uomo, è stato erroneamente avviato all’alimentazione umana; risultato, circa 50 persone hanno accusato malesseri che sembrano riconducibili al consumo di questo mais e sono ricorse alle cure mediche. Alcuni prodotti trasformati a base di mais sono stati ritirati dal mercato, alcuni stabilimenti di lavorazione del mais hanno dovuto interrompere la lavorazione, si sono avuti danni economici per milioni di Euro. In questa sede non si vuole affermare che esiste certezza in merito alla contaminazione da STARLINK, ma si vuole semplicemente evidenziare una problematica relativa alla coesistenza e alla utilizzazione di certe tipologie di piante OGM.

A conclusione di queste brevi considerazioni connesse alle problematiche di tipo agronomico che si sono manifestate con l’introduzione di piante transgeniche, si vuole ribadire il fatto che, forse, con troppa fretta si vuole introdurre una tecnologia fortemente innovativa, che non ha ancora subito il vaglio di specifiche ricerche, volte ad evidenziare l’impatto che essa potrebbe avere per lo sviluppo sostenibile della nostra società. In questo contesto occorre credere nella ricerca e affidarle il compito di fornire certezze in merito a scelte che possono avere ripercussioni a lungo termine per il nostro sviluppo e per lo sviluppo delle generazioni future.

mercoledì 23 gennaio 2013

OGM, un buon documento della SIGA (Società Italiana di genetica Agraria)



RISCHI AMBIENTALI DA PIANTE GM

Riassunto

Prima dell’introduzione delle piante GM (Geneticamente Modificate), non si era mai sentita la necessità di imporre valutazioni di sicurezza per l’impatto ambientale delle piante coltivate e per i loro effetti sulla salute umana o animale. In contrasto, esaustive analisi sono oggi ufficialmente richieste nel caso in cui il miglioramento genetico delle piante preveda operazioni di ingegneria genetica.

Discutendo i dati sperimentali prodotti dall’intensa ricerca condotta in più di dieci anni nella Comunità Europea e nel resto del mondo, il presente documento concorda con la osservazione che l’integrazione di un gene esogeno in una pianta GM non rappresenta, di per sé, un fattore di pericolo.

Inoltre, questo documento espone il principio secondo cui ha senso valutare i rischi associati alla coltivazione di piante GM solo se questi rischi vengono confrontati con quelli che si incontrano nella agricoltura tradizionale basata sull’uso di piante non-GM. Anzi, il trasferimento genico risulta una pratica di miglioramento genetico estremamente più controllabile rispetto alle pratiche tradizionali basate sulla mutagenesi e sull’incrocio. Eventuali rischi possono derivare solo dalla natura del gene selezionato per una specifica applicazione. Ne consegue che la valutazione del rischio dovrà essere effettuata “caso per caso” e che le conclusioni relative ad un caso non saranno generalizzabili.

Infine, il Documento conclude che sarebbe fuorviante considerare i rischi della coltivazione di una specifica pianta GM se questi non venissero confrontati con quelli che oggi si incontrano nella corrispondente coltivazione non-GM. E’ infatti evidente che anche la pratica agricola tradizionale, inclusa l’agricoltura oggi definita “biologica”, può comportare rischi per l’ambiente e per la salute. 

La proposta è quindi che si accettino ciascuna delle piante GM prodotte dalla ricerca scientifica solo se il rischio da esse presentato risulterà eguale o, meglio, inferiore a quello che oggi accettiamo per la coltivazione della corrispondente pianta non-GM. In altri termini, si valuti il rapporto rischi/benefici e si proibisca l’uso della pianta GM se questo rapporto risulterà inaccettabile, ma la si accetti quando i rischi risultino ridotti ed i benefici notevoli. Il documento elenca ed analizza specifici rischi per l’ambiente delle piante GM e propone, ove possibile, approcci che possono ridurne il livello.
 


Il problema

Prima dell’introduzione delle piante GM (Geneticamente Modificate), non si era mai sentita la necessità di imporre valutazioni di sicurezza per l’impatto ambientale delle piante coltivate e per i loro effetti sulla salute umana o animale. Il genetista delle piante coltivate (“plant breeder”) selezionava, e registrava per la commercializzazione, nuove varietà, o anche nuove specie importate da paesi lontani, semplicemente sulla base di caratteristiche agronomiche e commerciali favorevoli. Tra queste: vantaggi agronomici (resa, resistenza a parassiti e a stress abiotici), analisi sensoriali (sapore, profumo), vantaggi commerciali (conservazione del prodotto e sua accettabilità); meno frequentemente erano considerate anche alcune analisi chimiche, come, ad esempio quelle riguardanti il contenuto di proteine nei semi dei cereali o di amilosio in quelli di riso.

Eppure rischi ambientali esistevano anche allora. Il polline ed i semi delle piante hanno sempre avuto la possibilità di impollinare le piante sessualmente compatibili presenti nell’ambiente e quindi di interferire con la biodiversità; oppure potevano colonizzare i suoli con i loro semi e qualche volta diventare invasive. E’ successo ad esempio con la robinia, introdotta per consolidare le massicciate delle ferrovie e ora presente in tutta Italia. E’ successo anche con l’ailanto e addirittura con alcuni meli che si ritrovano oggi ad “inquinare” la flora del Parco del Ticino.

Esistevano anche allora pericoli per la salute umana ed animale. La patata ed altre solanacee contengono sostanze tossiche come i glico-alcaloidi; giovani piantine di basilico (ma non piante che hanno superato i 10 cm in altezza) accumulano alte dosi di metil-eugenolo, un ben noto cancerogeno (Miele et al., 2001); sostanze che provocano allergie sono presenti non solo in una pianta esotica come il kiwi, ma anche nel riso e nel frumento.

In contrasto, esaustive analisi sono oggi ufficialmente richieste nel caso in cui il miglioramento genetico delle piante coltivate preveda l’integrazione di un gene esogeno nel loro DNA mediante l’uso di metodologie di ingegneria genetica. Tutte la nazioni del mondo si sono dotate di rigide leggi e linee guida per la valutazione dei rischi delle piante GM  e la valutazione deve essere eseguita ancora prima che queste possano ricevere il permesso di rilascio nel sistema agricolo o forestale. Le leggi si applicano anche a piante GM per uso biomedico per cui sia prevista la crescita in serra, in condizioni altamente controllate.

E’ oggi radicata nell’opinione pubblica la convinzione che, nonostante i controlli, le piante GM siano portatrici di nuovi eccessivi rischi per la salute umana e per l’ambiente. E’ diffuso il convincimento che  l’inserimento di un gene nel DNA di una pianta costituisca, di per sé, un inaccettabile rischio. Questa capillare sensibilizzazione ai rischi derivanti dall’agricoltura, ma limitatamente alle piante GM, è la conseguenza di una campagna anti-piante GM condotta negli ultimi 10 anni in modo deciso, e a volte spettacolare, da gruppi di opinione. A questa campagna è legato il fenomeno, tutto italiano, della comparsa di “Comuni Deingegnerizzati” e di leggi regionali che mettono al bando il cibo GM.

E’ stata creata inoltre un’artificiosa contrapposizione tra  piante GM e qualità. Il cibo GM viene recepito come antagonista del cibo di qualità, sottintendendo che la difesa della qualità deve passare attraverso la lotta contro le piante GM.


Una domanda fondamentale: il gene esogeno è di per sè un fattore di rischio?

Una pianta GM è una pianta il cui DNA è stato modificato introducendo un gene isolato da un altro organismo vivente. Il resto del genoma resta identico a quello della pianta di partenza
(affermazione non vera, in quanto il transgene per funzionare ha bisogno di un promotore, di un terminatore, di un marcatore antibiotico e di altre sequenze geniche). E’ la prima volta nella storia dell’agricoltura in cui si riesce ad attuare un intervento di miglioramento genetico così mirato e puntiforme (affermazione non vera, in quanto l’inserimento del transgene avviene a caso e non si conosce dove va a collocarsi). Sino al 1985 il miglioramento genetico delle piante prevedeva, essenzialmente, la mutagenesi e l’incrocio tra individui sessualmente compatibili. Nell’incrocio si mescolano in eguale rapporto i cromosomi di due individui, e si selezionano le piante (i figli) con le combinazioni genomiche più favorevoli. In alcuni casi, si ricorre a successivi reincroci con una delle due piante parentali (“incrocio ricorrente”) in modo da aumentare l’apporto del genoma di uno dei due partner. La mutagenesi è invece basata sull’induzione di modifiche nel DNA (con agenti chimici o fisici) e sulla successiva selezione di mutanti di interesse. In quest’ultimo caso si ottengono piante con modifiche in un numero imprecisato di geni, oltre che in quello desiderato: nessuno può escludere che alcune di queste modifiche rappresentino rischi per l’uomo e l’ambiente. 

Con la definizione di metodologie per l’identificazione e l’isolamento di geni da qualsiasi organismo vivente si è aperta la porta alle piante GM. E’ infatti oggi possibile trasferire geni selezionati in piante ed ottenerne l’integrazione nel loro DNA. Dunque, la nuova pianta, che conteneva alcune decine di migliaia di geni ne conterrà ora uno in più
(affermazione non vera, in quanto il transgene per funzionare ha bisogno di un promotore, di un terminatore, di un marcatore antibiotico e di altre sequenze geniche). Naturalmente il gene sarà stato selezionato tra quelli che conferiscono una nuova interessante caratteristica genetica.

La prima domanda che la scienza si è posta è se l’inserimento di una nuova sequenza di DNA sia di per sé un elemento di rischio non accettabile. In altre parole, l’introduzione di un gene esogeno comporta nuovi, inattesi rischi che non possano essere evitati con le procedure di selezione e di controllo usate tradizionalmente dal breeder nel miglioramento genetico tradizionale?

Un ulteriore motivo di preoccupazione è rappresentato dal fatto che il trasferimento di geni attraverso l’ingegneria genetica supera le barriere sessuali. Infatti, mentre la mutazione modifica geni già esistenti in una varietà coltivata e l’incrocio sessuale rimescola i genomi dei due partner, l’ingegneria genetica, per la prima volta, supera le barriere di compatibilità sessuale e può introdurre geni isolati dai più diversi organismi. La preoccupazione fondamentale è: può questo rappresentare una turbativa pericolosa dei meccanismi genetici della pianta stessa creando nuovi gravi elementi di rischio?

Qualche pubblicazione a sostegno di queste preoccupazioni è apparsa nella letteratura scientifica (Ho et al., 1999). Tuttavia le argomentazioni a supporto di ciò sono state decisamente confutate e dimostrate prive di serie basi scientifiche (Trewavas e Leaver, 2000). La risposta della scienza è che queste preoccupazioni sono da escludere: lo scambio di geni tra specie differenti è un evento del tutto naturale, seppure avvenga in natura con una frequenza estremamente più bassa di quella tra individui sessualmente compatibili. Geni passano addirittura da batteri al DNA delle piante. Anche il DNA dei virus si può integrare nel DNA della pianta (come anche in quello dell’uomo). Inoltre, il DNA di tutti gli organismi non è così stabile come si credeva negli anni ’50 agli albori delle scoperte sul DNA. Oggi si sa che il DNA degli organismi viventi è plastico, si spezza, si riarrangia, modifica il numero dei suoi geni, è composto in maggioranza da sequenze ripetute che non sono geni, che possono aumentare o diminuire di numero e che possono integrare sequenze esogene. Il DNA delle piante è ancora più plastico di quello animale (Marx, 1984; Sala, 2000). E’ stato proposto (Walbot e Cullis, 1983) e successivamente ampiamente dimostrato, che “al contrario degli animali”, che sfuggono alle condizioni ambientali avverse cambiando ambiente, le piante, incapaci di muoversi, vi si adattano modificando il loro DNA”.

In definitiva si può affermare che gli effetti positivi o negativi di un nuovo gene in una pianta non sono legati al processo in sé del trasferimento di un frammento di DNA, ma piuttosto alla natura del gene stesso; non è quindi possibile sostenere il principio di una pericolosità generalizzata. Rischi e benefici di una pianta GM (ad esempio, soia con gene di resistenza ad un erbicida, melo resistente agli insetti, riso che accumula una vitamina nel suo seme) saranno relativi al caso in esame, come lo sono sempre stati nel caso di selezione di mutanti e di ibridi con le tecniche tradizionali.

Altre considerazioni generali possono esserci utili per comprendere la natura del trasferimento di geni nelle piante GM. La più importante è quella relativa alla nozione consolidata che afferma l’universalità del codice genetico: a parte alcune differenze evolutive, non esistono differenze sostanziali tra i geni dei diversi organismi. Per il biologo molecolare non esiste un gene “animale” o “vegetale”. L’uomo è uomo non perché possiede geni “umani”, ma perché possiede una serie di geni diversi (30.000 o più) che specificano, nel loro insieme lo sviluppo dell’organismo “uomo”. Molti dei geni dell’uomo sono anche presenti nelle piante, nei batteri e nei funghi. Ma è sempre l’insieme dei geni e la loro attività coordinata, che specifica lo sviluppo di una pianta, un batterio, un fungo o anche un virus.

Le moderne metodologie permettono l’isolamento di geni da qualsiasi organismo vivente (vegetale, animale, fungo, batterio o virus) ed il loro trasferimento nel DNA delle piante (o negli altri organismi). Il gene esogeno, una volta inserito, si comporterà come gli altri geni della pianta e verrà ereditato nella progenie seguendo le ben consolidate leggi di Mendel. In base a queste considerazioni, anche un gene isolato dal DNA dell’uomo (ad esempio il gene per la sintesi di insulina) potrà quindi, quando inserito nel DNA di una pianta, essere considerato, a tutti gli effetti, un gene della pianta stessa (insulina è stata già prodotta in piante di tabacco).


Il concetto di “Rapporto Rischi/Benefici”

Se si desidera dare una base logica alla discussione sull’accettabilità delle piante GM bisogna partire dalla constatazione che, nelle attività umane,
 la sicurezza è sempre un concetto relativo. In ogni specifica situazione, essa è correlata al livello di tolleranza del rischio che viene accettato in confronto con i benefici che derivano dalla attività stessa. Non esiste un’attività umana assolutamente esente da rischi. La penicillina ha salvato, e salva tuttora, milioni di vite da gravi infezioni, e la consideriamo per questo un farmaco essenziale anche se ogni anno uccide (solo in Italia) alcune decine di persone per shock anafilattico. Ma accettiamo anche la motorizzazione che provoca migliaia di lutti ogni anno, inquina l’aria delle città e ne danneggia il patrimonio architettonico: evidentemente, nella percezione comune i vantaggi dell’uso dell’auto superano abbondantemente i suoi rischi. Allora, il rischio zero non esiste in alcuna attività umana. 

Non esiste neanche in agricoltura, come sopra accennato. Non esiste tra i prodotti nazionali di qualità (Miele et al., 2001) e non esiste neanche nell’agricoltura biologica, oggi proposta come alternativa “naturale” alla agricoltura GM. E’ dimostrato, ad esempio che le aflatossine si accumulano preferenzialmente nelle piante non resistenti ai funghi o non trattati con fungicidi (Verderio et al., 1998; Munkvold et al., 1999;
 http://www.scisoc.org/feature/Btcorn/Top.html ). Sono istruttivi a tale riguardo gli studi sulle fumosine, una classe di micotossine che, contaminando le piante e i semi di mais, risulta neurotossica e carcinogenica negli animali e, probabilmente, nell’uomo (le analisi conclusive sono attualmente in corso: WHO, 2000). Semplicemente, i benefici del miglioramento agricolo sono sempre stati considerati, e quasi sempre a ragione, di gran lunga superiori ai rischi.

La lunga tradizione di miglioramento genetico delle specie vegetali coltivate ha costantemente migliorato la produttività e la qualità. Ciò è stato frequentemente ottenuto attraverso l’incrocio di varietà coltivate o di queste con varietà selvatiche. Ma l’incrocio ha i suoi rischi: può attivare nella progenie geni che erano inattivi negli individui parentali: come nell’incrocio tra un uomo ed una donna perfettamente sani si può verificare la nascita di un figlio affetto da gravi patologie, così anche dall’incrocio tra due piante innocue per la salute umana e per l’ambiente può derivare una progenie che produce una sostanza tossica o che risulta invasiva nell’ambiente.

Anche la produzione e selezione di mutanti con migliorate caratteristiche agronomiche e merceologiche può comportare situazioni di rischio: sia nel caso di mutanti naturali che in quello di mutanti indotti da radiazioni o da agenti chimici, i geni sono modificati a caso ed in modo incontrollabile. Quindi, nell’incrocio e nella mutagenesi non vi è certezza di quale sia il nuovo set-up genetico. Questo è noto da tempo, e si ovvia a ciò producendo innumerevoli incroci o mutanti per poi eliminare, attraverso processi di selezione in campo, le piante che specifichino caratteri agronomici negativi o la produzione di sostanze potenzialmente rischiose. E si sa anche che “incroci ricorrenti” dell’ibrido con una delle due piante parentali può parzialmente ma non totalmente ovviare a questa possibilità.

Può però succedere che, anche in cibi ritenuti sicuri e tipici dell’agricoltura italiana, la ricerca scientifica dimostri, magari per un caso fortuito, la presenza di situazioni di rischio impreviste. Il caso sopraccitato del basilico è emblematico (Miele, 2001). Tuttavia, tutto sommato, sino ad oggi i benefici del miglioramento genetico tradizionale sono stati alti ed i rischi sono stati contenuti e comunque accettati dall’opinione pubblica.

Ma oggi, con la proposta delle nuove metodologie di trasferimento genico la percezione del rischio sembra modificata. Viene chiesto che la scienza dimostri che le piante GM siano assolutamente esenti da rischi per l’uomo e per l’ambiente. Il “principio di precauzione” viene ormai inteso, anche a livello istituzionale (soprattutto dal Governo Italiano e dalla Comunità Europea) come “principio di blocco” a meno che non sia data l’assoluta certezza dell’assenza di rischi attuali e futuri. Ma una scienza responsabile non può offrire assolute garanzie. La scienza non dà mai sicurezza, dà conoscenze sulla base delle quali si possano valutare i rischi ed i benefici delle nuove scoperte e delle nuove tecnologie. Rischi esisteranno sempre, nel caso della agricoltura (incluse le piante GM) come in tutte le altre attività umane. Compito della scienza non può essere che quello di verificare, caso per caso, il livello di rischio ed offrire alla società parametri per le decisioni sulla loro accettabilità. Si afferma spesso: “se la scienza non dà sicurezza, meglio il non-fare”. Ma è possibile che il non-fare abbia conseguenze più gravi del fare. Si prendano gli esempi del passato: chi avrebbe mai autorizzato, secondo l’interpretazione più restrittiva del “principio di precauzione” la sperimentazione sui vaccini, quella sugli antibiotici o l’introduzione della patata nella dieta europea? Dunque, il “principio di precauzione” deve essere associato al “principio di proporzionalità”; deve comportare una analisi dei rischi e dei benefici.

La domanda, messa in toni realistici deve essere: quale è il livello di rischio e quale rischio massimo può essere accettato dalla società? Una razionale proposta è quella fatta da Kappeli e Auberson (1998): “si accettino le piante GM se il loro rischio è eguale o inferiore a quello che oggi accettiamo per le piante prodotte con il miglioramento genetico tradizionale (incroci e mutazioni)”. La richiesta di valutare i rischi delle piante GM ha un senso solo se si conviene con questo principio (Sala et al., 2000). Se invece si pretende la dimostrazione scientifica della assoluta assenza di rischi, questa non potrà mai essere offerta dal ricercatore.

La disponibilità in tutti i paesi del mondo di una chiara e severa regolamentazione per la valutazione della sicurezza delle piante GM ci permette oggi di condurre questa valutazione con il più alto rigore scientifico e, quindi, di evidenziare “caso per caso” i rischi delle diverse combinazioni pianta-gene. Abbiamo le leggi ed i regolamenti che ci permettono di non accettare una pianta GM che mostri rischi superiori a quelli accettati per piante della stessa specie oggi in coltivazione. Attualmente abbiamo anche mezzi scientifici che ci permettono analisi che solo 10-20 anni fa erano impensabili. Si pensi alla PCR (Polymerase Chain Reaction), che permette di analizzare sequenze di DNA; agli enzimi di restrizione che ne permettono il taglio in siti prefissati; agli aiuti informatici, che permettono di immagazzinare tutti i dati relativi alle sequenze del DNA stesso.

La proposta è quindi che si valuti il rapporto rischi/benefici e si blocchi la pianta GM se questo evidenzierà un valore inaccettabile, ma la si accetti quando i rischi risultino ridotti ed i benefici notevoli
 . Sarebbe auspicabile che procedure di valutazione analoghe venissero adottate anche nel caso delle piante non-GM oggi coltivate, ma purtroppo ancora oggi ciò non è previsto.


Rischi per l’ambiente

Qui sotto si tratterà della valutazione dei rischi che l’ambiente può correre nel caso di sperimentazione e rilascio in campo di piante GM. Si lascia ad altre trattazioni specialistiche la discussione dei possibili rischi per la salute umana ed animale. Una prima considerazione è che sarebbe auspicabile che questi rischi fossero considerati anche per le piante non-GM, ma ciò per ora non succede. Le preoccupazioni per l’impatto della pianta GM sull’ambiente riguardano:

1. Diffusione dei suoi semi nell’ambiente.
2. Diffusione del suo polline con conseguente fecondazione di piante sessualmente compatibili.
3. Rilascio del gene esogeno dalle cellule della pianta GM e suo trasferimento diretto ad altre piante non sessualmente compatibili.
4. Alterazione dell’equilibrio dei batteri e degli insetti del suolo.
5. Impoverimento dei suoli.
6. Inquinamento dei suoli e delle falde acquifere.
7. Riduzione della biodiversità nel mondo vegetale.

L’unica novità delle piante GM è rappresentata dall’integrazione del gene esogeno. Il problema dunque è: la presenza di un gene esogeno, di per sé, aumenta questi rischi e li innalza al di sopra di ogni ragionevole controllo? Oppure i rischi per le piante GM sono ancor più controllabili visto che si tratta dell’unico caso in cui esistono dei meccanismi di controllo preventivi dei rischi?

Estremamente istruttivo, per il modo di affrontare queste problematiche, per la vastità dei dati sperimentali e per il modo di discuterli, è il recente rapporto scientifico (anche disponibile, con informazioni più dettagliate sul sito
 http://www.nature.com ) di Crawley et al. (2001). Questi ricercatori dell’Imperial College, Ascot, Berks, UK, hanno condotto per 10 anni uno studio esaustivo sulle 4 piante GM disponibili sul mercato nell’anno 1990: colza, mais, barbabietola da zucchero e patata. Le prime due erano GM per un gene che conferisce resistenza al diserbante “glufosinate”, la terza per un gene di resistenza al diserbante “glyphosate”, e la patata per un gene Bt, che conferisce resistenza ad insetti, o per il gene della lecitina di pisello. Le piante sono state coltivate per 10 anni in 12 differenti habitat, ed il loro comportamento è stato confrontato con quello delle corrispondenti coltivazioni non GM.

Le domande che i ricercatori si posero erano: (a) queste piante diventeranno a lungo termine invasive dei campi coltivati o di habitat naturali a causa della diffusione di semi GM? (b) i geni introdotti in esse si diffonderanno attraverso il polline a piante selvatiche?

In tutti i casi i risultati sperimentali hanno dato risposta negativa ad entrambe le domande. Interessanti, ed in linea con i principi esposti nel presente documento, sono anche le conclusioni espresse dagli autori (qui riportate nella lingua originale per correttezza dell’informazione): “Our results do not mean that other genetic modifications could not increase weedness or invasiveness of crop plants, but they do indicate that arable crops are unlikely to survive for long outside cultivation”. Anche in questo caso, inoltre, il suggerimento è di confrontare, caso per caso, i rischi presentati dalla coltivazione di OGM con quelli della corrispondente coltivazione non-GM. Questa premessa ci introduce all’esame dei punti sopra elencati..


1.  Diffusione del seme GM nell’ambiente

Le piante GM si riproducono per seme (o per talea) esattamente come le piante non-GM. La riproduzione sessuata (polline e ovario) porta alla formazione di semi-GM e questi vengono diffusi nell’ambiente. Ad esempio, molti semi vengono dispersi in un campo di mais tradizionale durante la raccolta; altri semi sono dispersi durante il trasporto e la commercializzazione. Ciò non è mai stato considerato un attentato all’ambiente in quanto il mais coltivato non è invasivo. Se germina in un ambiente non protetto non riesce a sopravvivere. La sua sopravvivenza è legata all’intervento protettore dell’uomo: in sua assenza crescono piante naturalmente molto più competitive (gramigna, ortiche, robinia, etc.).

Lo stesso è verosimilmente atteso per un mais GM (ad esempio, il mais-Bt). Solo nel caso in cui il gene esogeno fosse in grado di offrire un grande vantaggio competitivo nei confronti delle piante selvatiche si potrebbe considerare la possibilità di un attentato all’equilibrio ambientale. Non è sicuramente questo il caso dei mais-Bt oggi coltivati o di altri mais GM in studio (ad esempio, mais che accumuli proteine nobili nei semi).

Nel caso di ragionevoli dubbi a riguardo, sia nel caso del mais sia di altre piante GM per uso agricolo o forestale, entreranno in funzione le leggi ed i meccanismi di controllo. Questi potranno: (a) proibire il rilascio della pianta GM in questione o, (b) richiedere che nella pianta GM sia introdotto un carattere di sterilità che impedisca la formazione di semi.

Un esempio del tipo (b) può essere rappresentato dal caso del pioppo-
 Bt, resistente agli insetti defoglianti, sviluppato in Cina negli anni 1994-2001 (Sala, 2000). E’ auspicabile che i suoi semi non si diffondano nell’ambiente. Ciò sarà presto reso possibile dalla introduzione di un gene che rende sterile il pioppo-Bt stesso (“Progetto di Ricerca per la Biodiversità del Pioppo” della Fondazione Bussolera-Branca, Mairano di Pavia, in collaborazione con le Università di Milano e Pavia). Il pioppo-Bt sterile non potrà più competere con il pioppo naturale. Si noti comunque che questo problema non è prerogativa delle piante GM. Anzi, i tradizionali pioppi ibridi attualmente coltivati in Italia e nel mondo diffondono semi che, sviluppando piante invasive, possono attentare alla biodiversità dei pochi boschi residui di pioppo naturale. 


2.    Diffusione del polline GM con conseguente fecondazione di  piante sessualmente compatibili

Si teme che il polline di piante GM fecondi l’ovario di piante sessualmente compatibili determinando la comparsa di nuovi ibridi che potrebbero divenire infestanti nell’ambiente. Le piante fecondate potrebbero essere varietà coltivate della stessa specie oppure specie selvatiche.

Va anche qui osservato che questo non rappresenta un pericolo nuovo: da sempre il polline delle piante coltivate si diffonde nell’ambiente fecondando piante coltivate o selvatiche, producendo nuove combinazioni genomiche, cioè nuove piante ibride. Queste possono o risultare invasive e alterare gli ecosistemi se la nuova combinazione genomica offrirà vantaggi selettivi o, in alternativa, scomparire se il nuovo assetto genetico risulterà svantaggioso. Il polline GM, prodotto da piante GM, potrà contribuire in questa selezione con caratteri positivi o negativi o risultare perfettamente neutro. Si noti comunque che trattandosi di un solo gene (o, comunque, pochi geni) il ruolo del gene esogeno sarà molto più prevedibile di quanto non lo sia quello del resto del genoma.

Lo studio dei rischi derivanti dalla diffusione di polline GM devono, preliminarmente, distinguere due diverse situazioni a seconda del caso in cui il gene esogeno sia inserito, (a) nel DNA del nucleo o, (b) nel DNA del cloroplasto. Questa distinzione è fondamentale. Infatti, i geni nucleari sono ereditati secondo le leggi di Mendel: i cromosomi di ciascuna coppia sono ripartiti nel polline e nell’ovario; i geni del DNA del cloroplasto sono invece ereditati per via materna, cioè esclusivamente attraverso l’ovulo. Dunque l’ovulo sarà GM, mentre il polline non lo sarà dal momento che è privo di cloroplasti (vi sono tuttavia alcune eccezioni a quest’ultima regola: le conifere, ad esempio trasmettono il DNA del cloroplasto attraverso il polline).

La maggior parte delle piante GM prodotte sino ad oggi appartiene al gruppo (a), cioè possiede un gene (o alcuni geni) integrato nel DNA del nucleo. Ci si deve preoccupare, in questi casi, se il polline GM di queste piante è in condizioni tali da poter impollinare piante nell’ambiente circostante e determinare quindi la comparsa di piante GM indesiderate. Alcune comunicazioni scientifiche hanno già verificato che ciò può avvenire in natura. Ma sarebbe stato strano ed inspiegabile il contrario, cioè il fatto che il transgene avesse un comportamento anomalo non venendo trasmesso assieme al resto del genoma.

Un approccio scientifico e razionale al problema deve però anche includere attente analisi, condotte “caso per caso”, per:

(a)    analizzare le modalità con cui il polline della pianta in esame si diffonde nell’ambiente e si rende disponibile perfecondare l’ovulo di altre piante.

Non esiste, infatti, una regola generale. Le diverse piante attuano diverse strategie per trasportare il polline all’ovario da fecondare. Inoltre l’ovario può trovarsi nello stesso fiore (come nel caso del pomodoro che prevede l’impollinazione quando il fiore è ancora chiuso) o in fiori su piante diverse distanti anche chilometri. In quest’ultimo caso il polline è trasportato dal vento o dagli insetti. Le distanze percorse variano da specie a specie. Il polline di patata impollina altre piante di patata sino ad una distanza di circa 20 metri, quello di riso sino a pochi centimetri, quello di mais anche a centinaia di metri. Ma non è sufficiente che il polline arrivi alla pianta sessualmente compatibile. La fecondazione infatti avviene solo se, al momento dell’impollinazione, anche l’ovulo è maturo.

(b)   
 Analizzare il vantaggio selettivo che il gene esogeno potrebbe conferire alla pianta ibrida.

Se un gene non conferisce vantaggi selettivi ad una pianta, o, ancor più, se conferisce proprietà negative per il processo evolutivo, il nuovo ibrido sarà eliminato entro una o poche generazioni. Ad esempio, il “Golden rice”, selezionato per la proprietà di accumulare la pro-vitamina A nei semi di riso (Ye et al., 2000), non ha sicuramente acquisito alcun vantaggio selettivo e non potrà quindi rendere invasivo un eventuale ibrido più di quanto possa farlo un riso non-GM.
 

In alternativa, nel caso in cui esistano ragioni per prevedere che il polline di una pianta GM possa conferire vantaggi selettivi all’ibrido, abbiamo due alternative:
(i)    negare l’autorizzazione alla commercializzazione;
(ii) pretendere che il gene sia integrato nel DNA del cloroplasto.
Questa seconda soluzione non era tecnicamente disponibile, 10-15 anni fa, quando apparvero le prime piante GM. Metodologie per il trasferimento di geni nel DNA del cloroplasto sono oggi ampiamente utilizzabili per tutte le piante di interesse biotecnologico (vedi, ad esempio, De Cosa
 et al. , 2001).

Oltre al vantaggio di non produrre polline GM, l’inserimento di geni nel DNA del cloroplasto offre i seguenti vantaggi:
- Una cellula può contenere sino a 10.000 copie del gene (nel caso di inserimento del gene nel nucleo si ha, in genere, una sola copia).
- Il prodotto del gene per cellula può raggiungere concentrazioni molto elevate (vedi, ad esempio, Daniell et al., 2001a).
- Il DNA del cloroplasto delle piante di interesse è completamente sequenziato; quindi il sito di integrazione del gene esogeno nel DNA del cloroplasto può essere scelto e determinato con la massima precisione (al contrario di ciò che oggi avviene nel caso di integrazione nel DNA del nucleo).
- Il sistema di lettura del codice genetico del cloroplasto è simile a quello delle cellule procariotiche; ciò facilita l’uso di geni e segnali di espressione procariotici.
- E’ possibile sostituire il gene selezionabile che conferisce antibiotico-resistenza (oggi contestato) con un altro gene più accettato dalla pubblica opinione (Daniell et al., 2001b).
 



3.   
 Rilascio del gene esogeno dalle cellule della pianta GM e suo trasferimento diretto al DNA ad altre piante non sessualmente compatibili

Secondo alcuni, il pericolo del trasferimento di geni esogeni sarebbe ancora più serio: il transgene potrebbe sfuggire dalla pianta GM ed essere trasferito al DNA di altre piante presenti nelle vicinanze. Ciò avverrebbe anche nei confronti di piante sessualmente incompatibili e potrebbe conferire loro un vantaggio selettivo, rendendole infestanti. Si pensi, ad esempio, ai geni per la resistenza ai diserbanti e ai parassiti.

Come già descritto sopra, esistono dimostrazioni sperimentali che il trasferimento genico avviene normalmente in natura. Batteri scambiano frequentemente geni contenuti nei loro plasmidi. Il batterioAgrobacterium tumefaciens
 trasferisce frammenti di un suo plasmide alle piante parassitate. Tuttavia, non esiste dimostrazione che un gene integrato in una pianta passi accidentalmente ad un’altra pianta e che in questa risulti funzionale. E’ stato dimostrato, più in generale, che il DNA di cellule vegetali in disfacimento può permanere nel suolo quando si lega a componenti del suolo stesso. Ma ciò non significa che il DNA presente nel suolo sia disponibile per processi di trasformazione genetica di piante.


4.    Alterazione dell’equilibrio dei batteri della microflora intestinale o dei batteri e degli insetti del suolo

L’alterazione avverrebbe in seguito al trasferimento di transgeni presenti nelle piante GM ai batteri della microflora intestinale (quando la pianta sia usata come cibo), oppure ai batteri e agli insetti presenti nel suolo ove si coltivano le piante GM o nel tratto intestinale. E’ stato dimostrato che, anche quando mangiamo l’insalata, una fetta di carne od altri alimenti, il DNA presente nei cromosomi dei miliardi di cellule che ingeriamo non è immediatamente degradato, ma può persistere per minuti, o anche per ore, in forme più o meno integre.  Si teme dunque il pericolo che un transgene presente in una eventuale insalata GM possa essere trasferito al DNA della microflora intestinale e, perché no, delle cellule umane stesse. Il DNA delle piante GM può persistere per ore nelle feci dell’uomo e degli animali e potrebbe quindi, attraverso questa via, diffondersi anche nell’ambiente, permanervi per giorni ed eventualmente integrarsi nel DNA di altri organismi.

Non esiste alcuna dimostrazione scientifica che ciò avvenga almeno con una frequenza tale da interferire con la specificità delle specie, anche se è possibile ottenere in laboratorio il trasferimento genico orizzontale da una pianta ad un batterio (Nielsen et al., 2000). E’ importante considerare che se questo evento fosse solo poco più che occasionale tra piante-animali-batteri-funghi, non si vede perché oggi non troviamo un singolo gene originato dal genoma dell’insalata ed integrato nel genoma di un uomo vegetariano (o geni del maiale in quello di un carnivoro): il movimento di trasposoni (frammenti di DNA che si muovono all’interno dei cromosomi), l’integrazione di DNA batterico in piante (ad esempio:
 Agrobacterium tumefaciens ) devono essere fenomeni strettamente controllati dalla cellula. D’altra parte, in assenza di questi meccanismi il concetto stesso di differenziazione delle specie non potrebbe esistere.

E’ stata anche esplorata la possibilità che il prodotto del gene esogeno (la proteina) possa modificare le popolazioni che vivono nel suolo. Saxena
 et al. (1999) hanno dimostrato che la tossina Bt, prodotta dal mais-Bt, rilasciata dalle radici della pianta si lega a particelle del suolo stesso. La tossina risulta così protetta dalla degradazione. Ciò solleva il problema di quale possa essere l’effetto della tossina sulle popolazioni viventi nella rizosfera del mais-Bt stesso. Più in generale, queste osservazioni ci dicono che è importante verificare se vi sia un effetto del gene esogeno su batteri ed insetti presenti nel suolo ove sono coltivate piante GM. Nel caso di ragionevoli preoccupazioni può essere utile imporre l’uso di promotori inducibili che evitino la produzione continua della proteina indesiderata o proibire l’uso della specifica pianta-GM.

Vi è tuttavia da aggiungere che non è per niente facile stabilire quale debba essere l’equilibrio naturale di riferimento nel suolo di un terreno agricolo. Tutto il sistema agricolo è un ambiente artificiale in cui una monocoltura agricola ha preso il posto della vegetazione spontanea del preesistente bosco o prato (tutt’altra sarebbe la situazione se lo stesso territorio fosse abbandonato dall’uomo e tornasse al suo equilibrio spontaneo).


5.  Impoverimento dei suoli

L’agricoltura, per sua natura, impoverisce i suoli. Il fatto stesso di raccogliere i prodotti agricoli comporta un prelievo di sostanze che nel bosco andrebbero invece a fertilizzare il suolo stesso. L’agricoltura intensiva ha accentuato questo evento, portando all’elaborazione di tecniche colturali che provvedano al ripristino della fertilità del suolo stesso (aggiunta di fertilizzanti, di elementi chimici, di residui vegetali). Non vi è nessuna ragione scientifica per ritenere che una pianta GM (ad esempio, un riso GM resistente ai funghi patogeni) impoverisca i suoli  più di una pianta non-GM. Il problema dell’impoverimento dei suoli è quindi un problema di carattere generale, legato alle modalità del loro utilizzo e alla scelta di strategie per raggiungere un giusto equilibrio tra produttività e conservazione della fertilità del suolo.


6. Inquinamento dei suoli e delle falde acquifere

Anche questa possibilità non può essere considerata prerogativa delle piante GM. Una pianta GM, di per sé, non inquina il suolo più della corrispondente pianta non-GM. E’ possibile che una pianta coltivata produca ed accumuli nel suolo sostanze tossiche, tuttavia questa è una preoccupazione che deve interessare tutto il patrimonio agricolo. Nel caso in cui vi siano ragionevoli dubbi che la coltivazione di una qualsiasi pianta rappresenti un pericolo per il suolo e la falda acquifera, dovremmo avere la possibilità di bloccarne l’uso prima della sua introduzione nell’ambiente. Questo per ora è possibile solo nel caso in cui la pianta sia GM.


7.  Riduzione della biodiversità nel mondo vegetale

Desta infine preoccupazione la possibilità che l’introduzione delle piante GM nel sistema agricolo e forestale riduca la biodiversità. Per analizzare questa eventualità è però necessario chiarire il significato del termine. Distinguiamo due diverse situazioni: (a) biodiversità delle piante in ambienti naturali e, (b) biodiversità nei campi coltivati.

(a) Quando si parla di biodiversità in ambienti naturali, ci si riferisce alla diversità genetica che esiste nell’ambito di una specie (ad esempio,
 Quercus robur) oppure a quella che esiste tra le diverse specie di un habitat. Nel primo caso, ci si preoccupa del fatto che la perdita di diversità genomica nell’ambito di una specie limita le capacità della specie stessa di adattarsi a mutate condizioni ambientali. Nel secondo caso ci si preoccupa invece delle conseguenze che avrebbe la perdita di una parte delle specie oggi esistenti in quanto ciò limiterà  la capacità del mondo vegetale, nella sua globalità, di adattarsi alle stesse variazioni.

(b) Diverso è parlare di biodiversità nei campi coltivati. Agricoltura non è natura. Le piante coltivate crescono e si diffondono solo perché protette dall’uomo: in natura sparirebbero quasi tutte. Un campo di pomodori lasciato a sé per pochi mesi lascerebbe spazio alla gramigna, alle ortiche e ad altre innumerevoli essenze più competitive. Lo stesso succederebbe per un campo di mais. Dunque, quando si parla di biodiversità delle piante coltivate ci si riferisce piuttosto al fatto che oggi molte delle varietà di piante di interesse agrario (ad esempio, il melo) sono in numero estremamente inferiore a quelle coltivate 50-100 anni fa.

Gli attentati alla biodiversità sopra descritti hanno diverse cause. Le piante GM sono state accusate, nella loro globalità, di ridurre la biodiversità. Ma l’accusa non ha una base scientifica. Solo l’analisi e lo studio delle vere cause ci permetterà di limitare il fenomeno.

Uno dei fattori principali della perdita di biodiversità negli ambienti naturali è sempre stato rappresentato dall’introduzione della pratica agricola. Questa, oltre a trasformare i boschi e le praterie in monocolture, può attentare alla biodiversità delle specie selvatiche attraverso la diffusione del polline delle piante coltivate. In condizioni opportune il risultato può essere una omologazione dei genomi selvatici a quello della specie coltivata. In altri casi, il pericolo è rappresentato dalla diffusione nell’ambiente dei semi di interesse agricolo.

Da un punto di vista della biodiversità delle piante coltivate è comunque sempre auspicabile che, per ogni specie, le varietà proposte all’agricoltore siano le più numerose possibile. Il fatto che l’introduzione di una pianta GM in agricoltura non necessariamente significa perdita di biodiversità è rappresentato dal caso della soia “Roundup ready”, modificata geneticamente per introduzione di un gene che conferisce resistenza ad un diserbante. Oggi la coltivazione di soia GM negli USA copre il 60% della produzione nazionale ed il coltivatore ha a disposizione 1100 diverse varietà “Roundup ready” che si sono aggiunte alle 2000 varietà non-GM precedentemente disponibili negli USA.

Recentemente, Quist e Chapela (2001) hanno sollevato il problema della possibile perdita di biodiversità nelle zone di sopravvivenza delle specie vegetali selvatiche quando queste si trovino in vicinanza di coltivazioni di varietà della stessa specie. Nel caso specifico si trattava di mais ibrido commerciale coltivato in prossimità della zona di sopravvivenza del mais selvatico. Il sito in esame, in  Messico, è importante, perché è là che sono state evidenziate importanti zone di origine e diversificazione del mais coltivato. Quist e Chapela (2001) affermano di aver dimostrato il trasferimento di transgeni dal mais GM al mais selvatico. Gli autori della ricerca propongono, ma non dimostrano, che il trasferimento sia stato mediato dal polline. La pubblicazione scientifica è stata però decisamente smentita da analisi effettuate presso l’International Maize and Wheat Improvement Center (El Batan, Mexico) su semi raccolti nelle stesse zone sino al 2001 (Hodgson, 2002). Le critiche riguardano sia la attendibilità delle metodologie usate da Quist e Chapela, che darebbero spazio al rilievo di falsi positivi, sia il fatto che questi ultimi ricercatori rifiuterebbero di attivare uno scambio di materiale sperimentale per effettuare un controllo incrociato dei risultati. Comunque finisca la polemica, il lavoro di Quist e Chapela (2001) suggerisce che i geni si possono muovere tra piante sessualmente compatibili, ma questo non rappresenta niente di nuovo. La lezione di carattere più generale che potremmo dedurre dal caso del mais messicano è che dovremmo preoccuparci non tanto del fatto, del tutto possibile, che si riscontri la presenza di un transgene nelle zone di origine di una pianta domesticata (mais, ma anche frumento, vite, e molte altre), quanto del fatto che il transgene è un indicatore del trasferimento di interi cromosomi mediato dal polline. In altre parole, oggi, per la prima volta, analizzando i movimenti del transgene delle piante GM abbiamo la possibilità di monitorare il fatto che la biodiversità naturalmente presente (ed in evoluzione) nelle zone rifugio sia messa a rischio dalle attività agricole dell’uomo.
 

Un caso analogo a quello descritto per il mais messicano potrebbe essere quello delle sacche residue di pioppo naturale oggi in estinzione lungo i fiumi italiani. Esiste la preoccupazione che il polline ed i semi prodotti dai pioppi ibridi largamente coltivati in vicinanza dei boschi naturali possano minare la biodiversità del pioppo naturale omologandone il genoma a quello delle piante coltivate. Questo resta tuttavia da dimostrare, in quanto il polline ed il seme prodotti dal pioppo coltivato potrebbero non essere in grado di interferire con la popolazione naturale.

L’unica soluzione al problema della protezione dei siti di origine o di rifugio delle specie coltivate sarebbe quello di proibire le coltivazioni (sia GM sia non-GM) sino ad una distanza che non metta a rischio l’integrità della riserva di biodiversità. A nulla servirebbe il limitare la proibizione alle sole piante GM.

Queste considerazioni portano alla conclusione che è importante definire, caso per caso, l’effetto che il transgene, veicolato dal polline, potrebbe avere sulla progenie di piante sessualmente compatibili. E’ importante verificare se questo evento ponga rischi inaccettabili e, nel caso, prendere gli opportuni provvedimenti. Ma è anche importante usare il transgene come marcatore per verificare la eventualità e la frequenza con cui il polline trasferisce tutte le altre decine di migliaia di geni dalla pianta coltivata a quella selvatica. Ciò permetterebbe di salvare i rifugi di biodiversità, ma sarebbe anche utile nella protezione delle zone di produzione di sementi geneticamente certificate. Dunque, il “pericolo biodiversità” non è specifico per le piante GM. Anche le piante non-GM, soprattutto quelle coltivate, possono attentare alla biodiversità.

Inoltre, la perdita di biodiversità tra le piante coltivate ha frequentemente una causa commerciale. Un esempio tipico è quello relativo al melo. La scomparsa delle mele dai vecchi sapori viene spesso presentata come un effetto della introduzione di piante GM. Si denuncia che esistevano centinaia di varietà all’inizio del ‘900, mentre ora le varietà di mela che si trovano nei negozi si sono ridotte, nel nostro paese, a mezza dozzina. E’ chiaro che il fenomeno è legato alle mutate esigenze commerciali (il melo GM non è ancora disponibile in commercio!). La causa della situazione attuale è infatti da ricercare nel fatto che una volta gli alberi di melo erano coltivati in vicinanza delle città e le mele portate dai contadini al mercato più vicino. Oggi il melo è coltivato da grosse aziende agricole, i mercati sono conquistati con la pubblicità, il prodotto in eccesso è raccolto acerbo, conservato in celle frigorifere e maturato con l’etilene nella stagione in cui il prezzo di mercato è più alto. La mela tipica locale è scomparsa o sopravvive come prodotto di nicchia.

In conclusione, sarebbe dunque opportuno che tutte le piante (sia GM sia non-GM) venissero analizzate e controllate per eventuali interferenze con il sistema della biodiversità prima di essere introdotte nei sistemi agricoli e forestali.
 Sarebbe anche opportuno verificare se le interferenze sono correlate con la specificità genetica della pianta, con l’integrazione del gene esogeno, con il sito di coltivazione o con fattori commerciali. In ogni caso, sarebbe auspicabile che eventuali provvedimenti per la conservazione della biodiversità non fossero limitati al caso in cui il rischio sia correlato con una pianta GM. 

Nel caso delle piante GM, sarebbe anche utile valutare il “rischio biodiversità” in relazione alle modalità previste per la loro coltivazione. Infatti i rapporti con l’ambiente variano nel caso in cui la pianta sia coltivata:
 
1. in ambienti naturali (es., conifere);
2. in campo agricolo aperto (es., riso, mais, soia);
3. in ambiente confinato e controllato (es., piante che producono vaccini);
4. in serra (es., piante per produrre farmaci).


La scienza non ne sa abbastanza?

Negli ultimi 15 anni la Comunità Europea ha speso 70 milioni di euro per progetti di ricerca dedicati esclusivamente alla analisi dei rischi possibilmente associati alle piante GM. Questi fondi sono stati utilizzati per sviluppare 81 progetti di ricerca che hanno coinvolto più di 400 gruppi di ricerca di tutti i paesi della Comunità. I gruppi appartenevano, per la grande maggioranza, a Università e a Centri di ricerca pubblica senza legami con l’industria. I risultati di queste indagini sono stati pubblicati sulle più qualificate riviste scientifiche e in documenti ufficiali della Comunità Europea. La Comunità stessa li ha presentati e discussi in una tavola rotonda il 9 ottobre 2001. Le conclusioni generali sono state così riassunte dalla stessa Commissione (per accuratezza dell’informazione il testo è riportato nella lingua in cui è stato compilato):

“Research on the GM plants and derived products so far developed and marketed, following usual risk assessment procedures, has not shown any new risk to human health or the environment, beyond the usual uncertaineties of conventional plant breeding. Indeed, the use of more precise technology and the greater regulatory scrutiny probably make them even safer than conventional plants and foods; and if there are unforeseen environmental effects – none have appeared as yet – these should be rapidly detected by our monitoring requirements. On the other hand, the benefits of these plants and products for human health and the environment become increasingly clear”.

Informazioni dettagliate su queste ricerche e conclusioni si trovano sul sito Web della Comunità Europea (
 http://biosociety.dms.it/Home_News.htm ). Ai dati sperimentali della Comunità Europea vanno aggiunti tutti quei dati ottenuti (e pubblicati sulle più prestigiose riviste scientifiche internazionali) in ricerche condotte con altri fondi pubblici dalle Università e da altri enti pubblici sia Europei sia del resto del mondo.

E’ un peccato constatare che questo grande sforzo organizzativo ed economico della Comunità Europea e degli enti pubblici non riceva, soprattutto nel nostro Paese, la necessaria attenzione da parte della classe politica e dell’opinione pubblica. Ed è disarmante considerare come il possibile contributo del trasferimento genico al miglioramento genetico delle piante sia più condizionato da stati emotivi, paure ancestrali e convenienze politiche piuttosto che da solide conoscenze scientifiche. In un problema che è essenzialmente scientifico la scienza è costretta a giocare un ruolo di secondo piano!


Quali i benefici delle piante GM?

Non è compito di questo documento elencare e discutere i benefici che derivano dall’uso delle metodologie di trasferimento di geni in piante. Oggi in coltivazione esiste un numero ridotto di piante GM. Queste portano soprattutto geni per la resistenza a insetti, virus, diserbanti e marcescenza. Molte altre sono già pronte nei laboratori pubblici e privati di tutto il mondo. Tuttavia, si contano a centinaia i diversi geni integrati nel DNA di piante GM nei diversi laboratori pubblici e privati del mondo, Italia inclusa. Le finalità applicative sono diverse.

Dal momento che si è proposta una valutazione di accettabilità delle piante GM basata sull’analisi di rischi e benefici, risulta importante elencare almeno i settori in cui la ricerca sta attualmente concentrando i suoi sforzi. Questi sono:

a. Resistenza a stress biotici (infezioni da insetti, virus, funghi, batteri) e abiotici (siccità, freddo, caldo, salinità).
b. Resistenza a diserbanti della nuova generazione (più biodegradabili).
c. Resistenza dei frutti alla marcescenza.
d. Migliorata efficienza fotosintetica.
e. Eliminazione di sostanze naturali che inducano allergie.
f. Miglioramento del contenuto nutrizionale (vitamine, minerali, proteine).
g. Usi biomedici:
piante GM per vaccinare contro le malattie infettive ed i tumori
 ;
-
 piante GM che producono anticorpi;
-
 piante GM che producono farmaci.
h. Usi industriali:
-
 Piante GM che producano sostanze plastiche ed altre materie prime per l’industria chimica;
-
 Piante GM per la biodepurazione dei suoli e dei residui industriali.
i. Nuove piante ornamentali (nuove forme e nuovi colori).

Per ulteriori informazioni, si consulti il dossier Le Scienze (2001)


Ulteriori informazioni sui rischi e benefici delle piante GM

Questo documento non ha avuto la pretesa di presentare e valutare tutti i dati disponibili nella letteratura scientifica relativi alle piante GM. Il suo scopo è stato piuttosto quello di proporre le basi logiche per una corretta interpretazione dei dati scientifici stessi in rapporto ai rischi e ai benefici dell’impatto ambientale delle piante GM e, in particolare, del trasferimento di geni in pianta. Come ulteriore base conoscitiva si consiglia, tra l’altro, la lettura dei seguenti articoli: Daniell (1999a), Daniell (1999b), De Cosa (2001).
 



Bibliografia

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