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martedì 10 dicembre 2013

Aumento dei prezzi del cibo e fame nel mondo

Ciclicamente il problema dell’aumento del prezzo del cibo e della conseguente crisi alimentare si ripresenta nella sua gravità. L’insicurezza alimentare non è certamente una novità nel panorama dei problemi mondiali, e, purtroppo, la sua gravità non accenna a diminuire: secondo i dati diffusi dalla FAO, nel mondo sono circa 900 milioni le persone che soffrono la fame. E questo a dispetto dei numerosi e solenni impegni presi nelle più alte assise internazionali: nel 1996, i Paesi partecipanti al Vertice ONU sull’alimentazione si impegnarono a dimezzare entro il 2015 il numero degli affamati rispetto al 1991, riducendolo a 412 milioni. Nel 2000, invece, l’ONU approvò gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, fra cui quello di dimezzare la percentuale di chi soffre la fame, sempre entro il 2015 e in riferimento al 1991. Per raggiungere questo secondo obiettivo gli affamati nel mondo avrebbero dovuto ridursi a 585 milioni, mentre purtroppo dal 1996 essi sono in costante aumento.
Il cibo nel mondo non manca (secondo la FAO ci sarebbe cibo sufficiente per 12 miliardi di persone) e quella attuale è sicuramente una “crisi alimentare” dovuta alla mancanza di risorse economiche necessarie per poter acquistare il cibo, in relazione ad un rapido aumento dei prezzi degli alimenti e ad una stagnazione dei salari.
A questo punto, anche al fine di trovare le auspicabili soluzioni, è necessario interrogarsi sulle cause di tali aumenti del prezzo del cibo. È possibile affermare che l’attuale congiuntura è determinata da una serie di fattori, identificabili soprattutto:
- nella dinamica della domanda e dell’offerta di alimenti;
- nel  funzionamento dei mercati.
Per quanto attiene alla domanda di derrate agroalimentari occorre rilevare che la popolazione mondiale è in costante aumento e, secondo le previsioni più autorevoli, dovrebbe raggiungere gli 8 miliardi entro il 2020. Questo significa che solo per assicurare alla popolazione futura agli attuali livelli di alimentazione, sarà necessario aumentare del 40-50% la disponibilità di alimenti. Ma, a parte alcuni territori di Africa e America Latina, la possibilità di incrementare le superfici coltivate è piuttosto limitata, in quanto il suolo disponibile per nuove coltivazioni è troppo freddo, arido e/o in forte pendenza. Inoltre l’incremento della popolazione non si distribuisce uniformemente sul pianeta, ma spesso è concentrato proprio dove esistono già problemi di sottoalimentazione.
Anche la concentrazione della popolazione in agglomerati di grandi dimensioni è responsabile dell’incremento dei costi di produzione e di distribuzione degli alimenti e, in definitiva, del loro prezzo. I luoghi di produzione degli alimenti sono sempre più lontani da quelli di consumo. In questo contesto è cruciale o la redistribuzione della popolazione anche sul territorio rurale o lo sviluppo di quei servizi di mercato in grado di razionalizzare e di rendere efficiente la distribuzione degli alimenti (conservazione, imballaggio, trasporto, ecc.). Ovviamente questi servizi hanno un costo, che si ripercuote sul prezzo degli alimenti, a volte più elevato dello stesso costo dell’alimento.
Un altro fattore determinante della tensione sui prezzi delle derrate agroalimentari è l’innescarsi di processi di crescita economica in alcuni Paesi emergenti del Globo. L’incremento del reddito pro capite in taluni Paesi (ad esempio Cina e India) conduce ad una lievitazione della domanda di alimenti, che a sua volta, in presenza di una offerta mondiale sostanzialmente costante, determina la crescita dei prezzi. Ma questo diminuisce le possibilità di accesso al cibo di quei Paesi, o di quegli strati sociali, il cui reddito non è cresciuto e che così si ritrovano relativamente ancora più poveri. Si tratta di una vera e propria «guerra tra poveri», dove gli unici che guadagnano sono coloro che dispongono della proprietà legale del cibo, spesso con intenti speculativi.
Un fenomeno analogo deriva dalla ricchezza dei Paesi sviluppati, che permette loro di consumare — e spesso sprecare — troppi alimenti, aumentandone la domanda e quindi il prezzo. Occorrerebbe una maggiore sobrietà nel consumo di alimenti da parte dei Paesi ricchi, consapevoli del fatto che un incremento dei consumi da parte di taluni può determinare una carenza di alimenti per altri. Per esempio, nei Paesi sviluppati si consuma troppa carne: alcune stime indicano che se i Paesi Meno Avanzati (pma) raggiungessero i nostri livelli di consumo, sarebbero necessari 7 Pianeti per produrre i mangimi da destinare all’allevamento animale. Infatti, l’attività di ingrasso degli animali può essere rappresentata come la trasformazione di alcuni alimenti (i mangimi) in carne. Al contrario di quanto avveniva un tempo, oggi gli animali non mangiano più prodotti di scarto, ma competono con gli uomini, in quanto mangiano gli stessi prodotti (mais e soia, soprattutto). Ecco allora che l’incremento di prezzo delle derrate alimentari è dovuto a comportamenti di consumo elitari, che non tengono conto delle necessità alimentari di coloro che con noi condividono il pianeta e hanno diritto a una porzione adeguata delle sue risorse.
Nei tempi più recenti ha fatto la sua comparsa anche un altro potente protagonista nella competizione per l’allocazione dei prodotti agroalimentari: in seguito al boom del prezzo del petrolio, e di conseguenza delle altre risorse energetiche, assistiamo oggi all’utilizzo di risorse alimentari (soia, mais, girasole, ecc.) per la produzione di energia. In particolare, agli attuali prezzi del petrolio, le derrate agricole possono essere convenientemente utilizzate per la produzione di biodiesel, etanolo, singas (gas di sintesi), biomassa, ecc. Automobili che funzionano a biodiesel o a etanolo sono ormai una realtà, in particolare in Paesi come Stati Uniti e Brasile, così come centrali elettriche che funzionano a singas o a biomassa. Non v’è dubbio che si tratti di un competitore molto importante, in quanto l’economia mondiale è affamata di energia e tutti i mezzi risultano idonei pur di averne in quantità e a basso prezzo.
Significativi sono anche i fenomeni che influenzano l’andamento dell’offerta di derrate agroalimentari. Sicuramente i recenti incrementi del prezzo mondiale degli alimenti, sono dovuti anche all’aumento dei prezzi dei fattori della produzione, soprattutto quelli derivati in qualche modo dal petrolio (forza motrice, concimi, fitofarmaci, trasporti, conservazione, ecc.).
All’aumento dei prezzi dei prodotti agricoli ha sicuramente contribuito anche la presenza di situazioni ambientali avverse. In particolare, appare ormai evidente che i cambiamenti climatici hanno determinato situazioni produttive anomale. Nel 2007 la produzione di cereali in alcuni dei principali Paesi produttori, come Australia o Ucraina, ha subito forti flessioni a causa della siccità. Il che, a fronte di una domanda sostanzialmente rigida, avrebbe favorito un incremento dei prezzi. Non sappiamo se si tratti di un fenomeno episodico o di carattere permanente. Di certo la comunità scientifica e i Governi dei diversi Paesi sono molto preoccupati dal fenomeno del «riscaldamento globale» e dalla crisi idrica che ne dovrebbe conseguire. Se così accadrà, sembrano inevitabili ulteriori aumenti dei prezzi degli alimenti.
Poco sopra abbiamo menzionato l’esistenza di una competizione per l’allocazione dei prodotti agroalimentari fra usi alternativi. Un fenomeno analogo si verifica anche per un fattore produttivo insostituibile per l’agricoltura, la terra coltivabile, che viene destinata a insediamenti di vario tipo (abitazioni, ferrovie, strade, centri commerciali, campi da golf, aeroporti, ecc.). Purtroppo, tale sottrazione avviene molto spesso a scapito dei terreni migliori, ai margini degli antichi insediamenti urbani, che, per le necessità alimentari della popolazione, furono costruiti proprio dove erano presenti i terreni migliori. Si tratta di un processo inarrestabile, in quanto i guadagni che si possono ottenere dall’uso agricolo dei suoli non sono in grado di competere con quelli generati dalle destinazioni alternative extra agricole.
Ad aggravare le prospettive di sicurezza alimentare di taluni Paesi Meno Avanzati contribuirebbe anche l’uso dei terreni per coltivazioni di pregio destinate ai mercati dei Paesi ricchi. Con la produzione/esportazione di derrate agricole destinate ai Paesi ricchi, i Paesi Meno Avanzati cercano di acquisire valuta pregiata con la quale poter poi acquistare altri beni sui mercati internazionali: non a caso si parla in questi casi di cash crop (piantagioni da «cassa»). Si tratta di un fenomeno antico, almeno per prodotti come caffè o cacao, che negli ultimi anni si è ulteriormente esteso: basti pensare, ad esempio, alla coltivazione di fiori per il mercato europeo in Kenya o alla trasformazione delle risaie in allevamenti di gamberetti da esportazione in India. È ovvio che queste produzioni sono in competizione con la coltivazione di cibo per la popolazione locale e conseguentemente contribuiscono all’incremento dei prezzi delle derrate agroalimentari.
Da ultimo esaminiamo una serie di fattori che incidono sull’aumento dei prezzi dei prodotti agroalimentari derivanti dalle modalità concrete con cui funzionano i relativi mercati.
La domanda di prodotti alimentari, in confronto a quella di altri prodotti di consumo, è sostanzialmente rigida, in quanto le necessità biologiche riducono la libertà dei consumatori di comprimerne i consumi, anche a fronte di un aumento dei prezzi. Questo fatto aumenta il potere di mercato dei produttori e le loro possibilità di guadagno, spingendo i grandi potentati economici a tentare di costruire monopoli del cibo, al fine di controllane i prezzi. Vari strumenti vengono utilizzati a questo scopo, tra cui: acquisto massiccio delle terre agricole disponibili; realizzazione di forme di integrazione verticale tra produttori e distributori; espansione dei mercati a termine; tutela brevettuale del materiale genetico necessario per produrre il cibo (semi geneticamente modificati, animali clonati geneticamente modificati, ecc.). Evidentemente condotte di questo genere non possono che sollevare profondi dubbi in termini etici, in considerazione degli effetti che ne possono conseguire. Inoltre, in anni recenti si è registrato un notevole sviluppo di prodotti finanziari derivati, legati all’andamento delle quotazioni dei prodotti agroalimentari, in analogia con quanto è andato accadendo nella gran parte dei mercati borsistici e delle materie prime. L’abbondante liquidità disponibile in alcune aree del mondo, unitamente ai bassi tassi di interesse e all’alto prezzo del petrolio, ha reso il mercato di tali derivati estremamente attraente per speculatori in cerca di opportunità di diversificare il rischio e ottenere maggiori profitti, fino al punto che l’andamento di tali mercati concorre a trascinare i prezzi dei prodotti su cui i derivati si basano. Anche in questo caso è indispensabile sottolineare che una speculazione con tali effetti perde ogni giustificazione sul piano etico: l’attività speculativa, infatti, può ritenersi legittima solo quando rappresenta un incentivo all’efficienza dei mercati ed è al servizio dell’uomo, non più quando diventa un elemento di perturbazione tale da mettere a repentaglio le condizioni di vita di milioni di persone.
Un forte contributo alla contrazione della produzione di cibo con conseguente incremento dei prezzi è dato dalla modificazione delle politiche agricole di alcuni Paesi produttori. In particolare, l’ue, con la c.d. «Riforma Mc Sharry» attuata a partire dai primi anni del 2000, è passata da una politica agricola basata sul sostegno dei prezzi a una basata sul sostegno del reddito dell’agricoltore. Nel primo caso venivano fissati prezzi minimi garantiti e, di conseguenza, i guadagni dei produttori crescevano al crescere delle quantità prodotte. Una politica di questo genere spingeva dunque all’aumento della produzione e delle rese per ettaro, con il ricorso massiccio a concimi, fitofarmaci e irrigazione, e con effetti sicuramente criticabili in termini di impatto ambientale.
La nuova politica agricola dell’UE ha profondamente modificato il modo di produrre in agricoltura, in quanto ricorre a strumenti come:
-         limitazione delle superfici a seminativo;
-         progressiva riduzione dei prezzi interni al livello di quelli che si formano sul mercato mondiale;
-         introduzione di forme di sostegno al reddito dell’agricoltore legate alle superfici coltivate e non tanto alle quantità prodotte (con la conseguenza che l’agricoltore ottiene il sussidio anche se produce poco);
-         obbligo per i grandi produttori di destinare al riposo (set aside) una porzione, variabile di anno in anno, della superficie per la quale fruiscono di sussidi;
-         erogazione di aiuti per l’adozione di tecniche produttive eco-compatibili (riduzione dell’uso di concimi e fitofarmaci, diminuzione delle rese, riduzione del patrimonio bovino e ovino) o conformi alle norme sull’«agricoltura biologica»;
-         erogazione di premi per l’imboschimento di terreni normalmente destinati a seminativo.
È indubbio che tali misure abbiano determinato una consistente spinta alla riduzione della produzione cerealicola europea, peraltro storicamente eccedentaria, con effetti di una certa entità sull’offerta e quindi sui prezzi delle derrate agroalimentari a livello globale.
Da più parti, anche a livello politico, le piante geneticamente modificate sono presentate come una possibile soluzione al problema della fame, in quanto consentirebbero di aumentare la produzione e di conseguenza ridurre i prezzi. La questione è affiorata anche in occasione del vertice FAO di inizio giugno, senza che si potesse giungere ad un accordo, anche per la notoria polemica in materia fra USA, molto favorevoli agli ogm, e UE, tenacemente contraria.
Anche trascurando le implicazioni del ricorso agli OGM in termini di tutela della biodiversità e il fatto che la posizione appena espressa ripropone l’idea che la fame derivi soprattutto dall’insufficiente produzione di alimenti — che abbiamo già visto essere falsa —, le esperienze di coltivazione di ogm in alcuni Paesi evidenziano che le promesse non sono state mantenute, mentre si sono manifestati numerosi effetti negativi, vanificando quegli effetti miracolosi che, secondo alcuni sostenitori, costituirebbero il presupposto per la loro introduzione.
In particolare, per quanto riguarda le piante resistenti ai diserbanti totali, è stato riscontrato che l’uso continuo dello stesso diserbante ha determinato la selezione di piante infestanti geneticamente resistenti al diserbante. Inoltre le piante infestanti sono aumentate, in quanto le piante parentali selvatiche hanno acquisito il transgene che conferisce resistenza al diserbante e le piante transgeniche coltivate in una annata agraria sono divenute infestanti di altre piante transgeniche coltivate in annate successive. Per risolvere questi problemi è stato necessario ritornare ai vecchi diserbanti abbinati ai disseccanti totali.
Anche le piante transgeniche resistenti agli insetti presentano degli inconvenienti, in quanto dopo alcune generazioni anche gli insetti maturano una resistenza genetica alla tossina transgenica. Per evitare la selezione di insetti resistenti, i produttori di sementi transgeniche, ad esempio nel caso del mais, hanno consigliato agli agricoltori di riservare una certa quota della superficie coltivata (aree rifugio) al mais convenzionale, rendendo necessaria l’adozione di una pluralità di tecniche di coltivazione e dunque aumentando la complessità e anche i costi per i produttori agricoli (che infatti non sempre hanno seguito tale consiglio).
Infine, alcuni studi indipendenti condotti da ricercatori di Università americane avrebbero verificato poi che non è sempre vero che le piante transgeniche producano di più. In particolare, indagini effettuate su migliaia di ettari coltivati hanno evidenziato che la soia transgenica produce dal 6% all’11% in meno di quella convenzionale, mentre nel caso del mais transgenico si avrebbe un aumento della produzione del 2,6%.
Come le pagine precedenti hanno provato a mostrare, il problema del contenimento del prezzo del cibo non è di facile soluzione, in quanto coinvolge scelte di carattere politico, economico, sociale e di rapporti internazionali tra i diversi Paesi del globo. Affinché la situazione si normalizzi e si determinino condizioni nutrizionali stabili e sufficienti per tutti, sono necessari comportamenti cooperativi da parte degli organismi che compongono la lunga e complessa filiera di produzione del cibo. Questo comporta, necessariamente, che almeno alcuni comincino a mettere da parte forti interessi particolari per lasciare spazio alla ricerca di un bene comune globale.

Sarà necessario, inoltre, da parte di tutti — e in particolare degli abitanti dei Paesi ricchi — un atteggiamento più sobrio nei confronti del cibo, al fine di maturare una nuova consapevolezza verso un bene del quale nessuno può fare a meno.