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venerdì 8 novembre 2013

COESISTENZA OGM/CONVENZIONALE: VALUTAZIONE DEI DANNI

Ogni imprenditore deve essere libero di coltivare per il mercato ciò che ritiene più conveniente e/o più opportuno!” E’ questa, con ogni probabilità, la considerazione sulla base della quale l’Unione Europea, e conseguentemente il nostro Paese, prevede l’emanazione di specifiche norme per la coesistenza tra coltivazioni convenzionali e coltivazioni transgeniche. Trattasi, ovviamente, ed in termini generali, di una considerazione accettabile, con una semplice differenza nel caso degli OGM, in quanto se “è vero che non si può impedire a chi vuol coltivare transgenico di farlo, è altrettanto vero che non si può obbligare a coltivarli coloro che non li vogliono coltivare”. Tale considerazione è dettata dal fatto che questi “nuovi organismi viventi” hanno transgeni inseriti nel nucleo, che si esprimo in ogni parte della pianta (polline, foglie, radici, ecc.) e, pertanto, originano “inquinamento genetico” (il polline di queste piante si diffonde autonomamente nell’ambiente e può fecondare piante convenzionali, che, nel caso in cui il prodotto per il mercato sia costituito dal seme, originano una produzione che in parte deve essere considerata transgenica). In termini generali l’inquinamento genetico può verificarsi e rimanere circoscritto alle piante coltivate (per esempio tra mais transgenico e mais coltivato), ma può diffondersi anche tra piante coltivate e altre piante parentali selvatiche infestanti (per esempio tra colza transgenica e senape selvatica). Nel primo caso, con i dovuti e costosi accorgimenti,  l’inquinamento genetico, con ogni probabilità, potrebbe anche essere “controllato” (adeguate distanze tra campi OGM e campi convenzionali, specifiche misure agronomiche, barriere fisiche, ecc.), mentre nel secondo caso l’inquinamento genetico sarebbe di tipo pervasivo, in quanto la “pianta infestante transgenica” si diffonderebbe autonomamente nell’ambiente (col vento, con gli animali, con l’acqua, ecc.), anche a distanza di chilometri, ed il suo polline in annate successive andrebbe a fecondare “piante parentali coltivate”, che darebbero così origine ad una produzione che, in parte, sarebbe transgenica.  
La problematica introdotta precedentemente non è di poco conto, poichè nel caso di coesistenza, e soprattutto nel caso in cui l’inquinamento genetico provocasse dei danni di tipo economico, verrebbe meno quella certezza “causa/effetto” in grado di risolvere contenziosi di tipo giudiziario, tra “inquinatori e inquinati”. In particolare, mentre nel caso di piante coltivate che non hanno parentali selvatiche sarebbe semplice individuare la fonte dell’inquinamento (con ogni probabilità il campo coltivato confinante con piante transgeniche), la stessa cosa non si può dire nel caso di piante coltivate che possono essere fecondate dal polline di parentali selvatiche. Chi ha causato l’inquinamento? Il confinante che coltiva OGM, oppure il polline presente nell’ambiente delle parentali selvatiche? Le sentenze dei Giudici potranno avvalersi di elementi di certezza, oppure no? E’ ovvio che nel secondo caso gli elementi di incertezza non porteranno ad individuare un “colpevole certo”, per cui nel dubbio.................. 
Da un punto di vista pratico la domanda è la seguente: “è possibile la coesistenza tra coltivazioni agricole convenzionali (comprese quelle biologiche) e coltivazioni transgeniche?” Allo stato attuale delle cose, in relazione alle caratteristiche del materiale transgenico disponibile, che, come si è detto in precedenza, presenta transgeni inseriti nel nucleo, che si esprimono in ogni parte della pianta (polline compreso), la risposta è negativa, in quanto queste piante originano inquinamento genetico. Ecco allora che, nel caso di coesistenza, il settore produttivo che non intende produrre piante transgeniche, soprattutto nel caso di accordi contrattuali con gli utilizzatori del prodotto ottenuto dalla coltivazione, dovrà mettere a punto adeguate strategie agronomiche di contenimento dell’inquinamento genetico (sementi certificate, macchine apposite per la raccolta e per il trasporto, specifici luoghi di stoccaggio del raccolto, ecc.), al fine di poter avere “certezze” in merito alle caratteristiche qualitative del prodotto finale che intende avviare sul mercato. E’ ovvio che queste “certezze” hanno un costo, per cui, come minimo, la coesistenza tra coltivazioni transgeniche e coltivazioni convenzionali, comporterà sicuramente una lievitazione dei costi di produzione agricoli (non è ancora chiaro chi dovrà sostenere questi maggiori costi, ma si spera coloro che vogliono produrre transgenico), che potrebbe abbassare, se non addirittura annullare, i benefici economici ottenibili dalla coltivazione di materiale transgenico. E’ un primo effetto economico di una certa rilevanza, in quanto trattasi di un costo annuale, che dovrà essere sostenuto all’infinito o, quantomeno, sino al momento in cui la nostra società deciderà che l’etichettatura degli alimenti OGM non è più necessaria e verrà creata un’unica filiera di distribuzione per alimenti convenzionali e OGM.  Solo allora non saranno più necessarie norme che regolano la coesistenza, per cui le piante transgeniche si diffonderanno normalmente, così come ogni nuova pianta oggigiorno ottenuta attraverso metodiche di miglioramento genetico convenzionale. E’ ovvio che se verrà meno la separazione di filiera e l’etichettatura, le uniche piante che saranno coltivate saranno quelle transgeniche, in quanto accreditate di un minor costo di produzione.
Con la coesistenza, occorrerà poi considerare anche gli eventuali effetti di mercato (abbassamento dei prezzi, difficoltà di collocamento della merce, ecc.), poiché è vero che si avranno maggiori costi di produzione a livello agricolo, ma l’effetto più pericoloso potrà essere quello di vedersi rifiutare il prodotto da parte del consumatore interno o da parte dell’importatore estero, che ancora esige un alimento completamente esente da Organismi Transgenici (OT). Da questo punto di vista, nel caso in cui il nostro Paese riuscisse a realizzare filiere “OGM free”, vi potrebbero essere anche opportunità di mercato, indirizzate a soddisfare una domanda di “alimenti OGM free”, che per molti anni si manterrà ad un elevato livello.
Soprattutto per un Paese come il nostro, che produce prodotti trasformati di eccellenza (formaggi, insaccati, vini, ecc.), di alto valore aggiunto, i rischi di mercato sono sicuramente più importanti dei rischi produttivi agricoli, in quanto la qualità della materia prima di base potrebbe rappresentare un limite alla produzione di trasformati di eccellenza o, quantomeno, ritenuti tali dal consumatore. In particolare, è ovvio che se viene utilizzata materia prima transgenica, anche il prodotto trasformato sarà transgenico (di fatto, perché verificabile da una semplice analisi PCR, oppure “derivante” da OGM, nel caso in cui venga attuata la tracciabilità di filiera). E’ altrettanto ovvio che, se la legislazione lo prevede, questo prodotto dovrà essere etichettato come “contenente OGM” o “derivante da OGM”. Ecco che in questa situazione, al di là del fatto che gli OGM possano determinare anche effetti sui costi agricoli, gli scenari economici si faranno molto più complessi, in quanto si dovranno ipotizzare riduzioni di prezzo della materia prima e dei prodotti trasformati che non rispondono più alle esigenze dei consumatori, consumatori che non sono più disposti a pagare prezzi elevati per acquistare un prodotto che eccellente, secondo il loro metro di misura, non è più.
         E’ senz’altro vero che gli agricoltori di materia prima convenzionale subiranno maggiori costi, ma è altrettanto vero che anche i trasformatori di produzioni di eccellenza, che garantiscono un prodotto “OGM free”, subiranno maggiori costi (di approvvigionamento, di segregazione, di analisi, ecc.) e minori redditi (maggiori costi e non altrettanto maggiori prezzi, in quanto il prezzo di vendita sul mercato non potrà andare oltre certi livelli rispetto all’analogo  prodotto transgenico). Con ogni probabilità, gli unici che guadagneranno da questa situazione saranno i produttori di beni alimentari di scarsa qualità, che vedranno aumentare le difficoltà produttive di coloro che offrono prodotti di eccellenza (difficoltà nel reperimento della materia prima, maggiori costi di approvvigionamento, maggiori costi di analisi, minori prezzi di vendita rispetto agli incrementi di costo, ecc.) e vedranno divenire maggiormente competitivi i loro prodotti (in termini relativi se il prezzo dei prodotti di eccellenza aumenterà, il prezzo degli altri prodotti succedanei di minore qualità, pur rimanendo costante, è come se  diminuisse).
Trattasi, purtroppo, di uno scenario che si è già verificato. Ci si riferisce in modo particolare al settore dell’agricoltura biologica, nel quale gli agricoltori che hanno voluto garantire un alimento “libero da OGM” sono stati costretti a modificare le tecniche di produzione e a sostituire gli alimenti destinati al bestiame. L’esempio, a tutti noto, è quello della soia. A causa dell’inquinamento genetico determinato dalla “soia transgenica RR” molti agricoltori biologici nazionali hanno deciso, o sono stati costretti, di sostituire nell’alimentazione del bestiame la soia con il pisello proteico, che, come è risaputo, è caratterizzato da un prezzo di mercato superiore. Tale sostituzione ha sicuramente danneggiato gli agricoltori biologici, in quanto a fronte dei maggiori costi essi non hanno realizzato maggiori prezzi di vendita sul mercato (nel caso in cui essi abbiano realizzato maggiori prezzi, occorrerà considerare che il loro prodotto è divenuto meno competitivo rispetto a quelli convenzionali, per cui, con ogni probabilità, si è avuta una riduzione della domanda).

Come si è potuto notare dalle precedenti considerazioni, la coesistenza tra coltivazioni convenzionali e coltivazioni transgeniche aumenterà notevolmente le problematiche produttive e di mercato ed originerà sicuramente una grande mole di  contenzioso nella nostra società (aumenterà sicuramente il lavoro per gli avvocati). In particolare, non vi è alcun dubbio sul fatto che vi saranno dei danneggiati e dei danneggiatori. I danneggiati sono certi, in quanto hanno seminato materiale “non OGM” (certificato?) ed hanno ottenuto un raccolto che ad una analisi PCR risulta transgenico (saranno costretti  a vendere il prodotto ad un prezzo inferiore e/o dovranno risarcire i danni nel caso di rapporto contrattuale con utilizzatori terzi). La stessa cosa non si può dire per i danneggiatori, in quanto l’inquinamento genetico è pervasivo e non ha fonte certa (chi ha determinato il danno? La semente inquinata? l’agricoltore confinante che coltiva OGM? il polline portato dal vento da chilometri di distanza? le piante parentali selvatiche che col tempo sono divenute OGM? od altro ancora), per cui nel caso di contenzioso difficilmente un Giudice potrà esprimere un parere fondato su elementi di certezza. Permane comunque il fatto che un danno è stato provocato e che qualcuno sarà costretto a subirlo.
In termini generali, per danno deve intendersi qualsiasi effetto nocivo prodotto da individui terzi nei confronti di altre persone (siano esse persone fisiche o giuridiche) o di altre entità economiche (beni materiali, ma anche beni immateriali). Così, per esempio, se il danno riguarda la distruzione parziale o totale di un bene fisico, oggigiorno la casistica potrebbe essere veramente complessa e interessare un’enorme quantità di beni (danno emergente). Nel caso in oggetto il danno è causato dalla coesistenza tra agricoltura convenzionale, transgenica e biologica, che determina un raccolto che non ha le caratteristiche di quello che ci si aspettava di ottenere. In particolare, in termini pratici e secondo quanto rilevato dai bollettini delle principali Borse Merci, tale raccolto è caratterizzato da un prezzo di mercato inferiore a quello che ci si aspettava di ottenere.
Ci si trova in presenza di un danno anche quando si ha una diminuzione del reddito normalmente prodotto dal bene danneggiato (lucro cessante). Così, per esempio, a causa di un danno da inquinamento genetico, un campo coltivato a mais subisce una perdita di produttività per un certo numero di anni (a quanto ammonta il danno annuale subito?) Oppure, ancora, per l’ingrasso degli animali gli agricoltori biologici hanno dovuto sostituire le proteine della soia con quelle del pisello proteico, più costoso. Oppure, ancora, gli agricoltori biologici non sono più in grado di garantire una produzione esente da OGM, per cui sono costretti ad abbandonare l’agricoltura biologica, con tutti i danni conseguenti (danni di avviamento per il periodo di certificazione, danno per abbandono dei clienti che con tanta fatica si erano fatti, danno per lucro cessante a causa del fatto che non possono più attuare l’agricoltura biologica). A quanto ammontano i maggiori costi (di mancato ammortamento dei macchinari, di riconversione agricola, ecc.) e i minori redditi?

A questo punto, in un’ottica di globalizzazione dei mercati,  si inseriscono considerazioni di opportunità per il nostro Paese, in merito alla coesistenza produttiva e all’utilizzazione o meno di materiale di propagazione brevettato proveniente dall’estero, che origina alimenti che per il momento non sono graditi al consumatore e che possono determinare una diminuzione della competitività delle nostre produzioni. Un consumatore che oggigiorno sarebbe meglio chiamare “acquistatore”, in quanto controlla e verifica accuratamente il prodotto prima di acquistarlo e che oggigiorno tende a scartare prodotti che contengono OGM.
Per quale motivo il nostro Paese dovrebbe aprire al transgenico se il consumatore non lo vuole? Non risponde ad alcuna logica economica la strategia di voler immettere sul mercato  un bene che l’80% degli acquirenti ha detto di non voler acquistare. Perché la nostra agricoltura dovrebbe abbandonare una strategia sicura, basata sulla qualità, sulla tracciabilità e sulla sicurezza alimentare, per far posto ad una produzione omologante, sempre meno richiesta dal mercato? Potrà competere il nostro Paese sul mercato globale sulla base dei bassi costi di produzione e dei bassi prezzi di vendita o, più realisticamente, potrà competere sulla base di produzioni di eccellenza ad alto valore aggiunto? Perché mai, in un’ottica di sviluppo sostenibile, dovremmo adattarci a coltivare prodotti “non ancora sicuri” per la salute umana e per l’ambiente, ben sapendo che questa strada è senza via di uscita a causa dell’inquinamento genetico?
         Sono interrogativi importanti, che, anche al di là di fattori economici,  meritano una risposta prima che sia intrapresa la via della coesistenza per il benessere del nostro Paese. In particolare, la contemporanea presenza di forme di agricoltura transgenica (con piante che hanno transgeni costitutivi) con forme di agricoltura convenzionali determina l’impossibilità da parte dell’agricoltore, anche nel caso in cui sostenga maggiori costi, di poter garantire una effettiva produzione “OGM free”, così come richiesto dal consumatore. In questa situazione alcune considerazioni sono necessarie relativamente alla possibilità che l’agricoltore metta in atto strategie di contenimento dell’inquinamento genetico:
-         all’agricoltore che non vuole coltivare transgenico conviene evitare l’inquinamento genetico? Con ogni probabilità gli converrà solo nel caso in cui sul mercato siano presenti tre prezzi del medesimo prodotto (prodotto OGM, prodotto con soglia di tolleranza inferiore allo 0,9%, prodotto “OGM free”). E’ ovvio che gli converrà evitare l’inquinamento genetico, e adotterà tecniche che comportano maggiori costi di produzione, solo nel caso in cui il prezzo di mercato del prodotto che otterrà (tutto da verificare, in quanto con l’inquinamento genetico non esiste la certezza di ottenere una produzione di un certo tipo) sarà in grado di remunerare questi maggiori costi. Nell’incertezza produttiva, con ogni probabilità, egli sceglierà di coltivare prodotto transgenico, in quanto è l’unico in grado di consentirgli di poter impostare una tecnica produttiva certa, con previsioni certe su ricavi e costi. Pertanto, in presenza di incertezza produttiva, si verrebbe a determinare una situazione simile a quella che ha visto l’esplosione delle superfici coltivate con piante transgeniche negli U.S.A., in Canada ed in altri Paesi dove queste produzioni sono considerate “Sostanzialmente Equivalenti” a quelle convenzionali. La presenza di un unico prezzo di mercato per prodotto OGM e per prodotto “OGM free” ha determinato una esplosione delle superfici coltivate con prodotto OGM, in quanto è quello caratterizzato dal minor costo di produzione;
-         l’agricoltore è sicuro che anche adottando determinate pratiche colturali potrà ottenere un prodotto realmente al di sotto della soglia di tolleranza? Purtroppo la risposta è negativa, in quanto sono talmente tante le possibilità di inquinamento genetico della produzione agricola, che difficilmente si potrà avere la certezza del risultato. Potrà accadere che nonostante gli sforzi operati dall’agricoltore il prodotto presenti soglie di OGM superiori allo 0,9%. Ecco allora che anche in questo caso difficilmente il nostro produttore adotterà pratiche colturali più costose nell’incertezza di concretizzare con un maggior prezzo il risultato della coltivazione. Ancora una volta sceglierà di produrre transgenico;
-         chi pagherà i maggiori costi? Nel caso delle produzioni “OGM free” il mercato offre spunti di riferimento, in quanto attualmente queste produzioni sono caratterizzate da prezzi superiori al prodotto convenzionale dell’ordine del 10% circa. E’ ovvio che queste maggiorazioni di prezzo ricadranno sul consumatore, il quale si troverà costretto a pagare di più il precedente prodotto convenzionale, per il sol fatto che qualcuno ha voluto introdurre un alimento del quale ancora non sono note le reali capacità  produttive, nutrizionali e ambientali.


In conclusione, la coesistenza tra produzioni transgeniche e convenzionali determinerà un ampliamento delle problematiche produttive e decisionali per l’agricoltore. E’ ovvio che in una situazione di incertezza in cui non sarà possibile determinare a priori la qualità del prodotto finale ottenuto (“OGM free”, “OGM” o “OGM free all’interno di una soglia di tolleranza dello 0,9%”), il produttore agricolo sarà portato a sostituire le produzioni convenzionali con quelle transgeniche, in quanto saranno le uniche che offriranno certezza nei costi di produzione e nei prezzi di vendita (in pratica egli sarà portato a non rischiare di coltivare con i costi del convenzionale, per dover poi vendere ai prezzi del transgenico). Ancora una volta “la moneta cattiva scaccerà quella buona”.