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martedì 11 dicembre 2012

Il brevetto sul cibo. Aumenterà o diminuirà la libertà dell’uomo?


In questa sede non si vuole entrare nel merito dell’utilità del Brevetto per lo sviluppo della nostra Società. E’ risaputo, infatti, che la tutela brevettuale può rappresentare un incentivo allo sviluppo tecnologico e che molti prodotti di uso comune, e quindi di elevata utilità, sono stati studiati, creati e diffusi solo grazie alla tutela brevettuale. In particolare, il Brevetto è lo strumento giuridico che conferisce all'autore di un'invenzione il monopolio temporaneo di sfruttamento dell'invenzione stessa, ossia il diritto di escludere terzi dall'attuare l'invenzione e dal trarne profitto.

Il brevetto, pertanto, rappresenta una sorta di  monopolio legale, seppur limitato territorialmente e temporalmente. Tale monopolio legale si giustifica con il fatto che il sistema brevettuale è basato su una forma di scambio: il titolare del brevetto riceve protezione per la propria invenzione e in cambio è obbligato a svelare e a descrivere l'invenzione stessa. Durante il periodo di applicazione del Brevetto, il detentore può sfruttare economicamente la protezione brevettuale, al fine di ottenere un ritorno economico per le spese di ricerca e sviluppo sostenute.

In un contesto di questo tipo si riscontrano tutti gli effetti del monopolio. In particolare, in un primo momento il Brevetto determina una tenuta dei prezzi di vendita del prodotto brevettato, in relazione al fatto che il monopolista è protetto dalla Legge e può applicare o una “politica dei prezzi”, mantenendo alti prezzi di vendita del prodotto (sarà poi la domanda ad adeguarsi a questi prezzi) o una “politica delle quantità”, attraverso un contingentamento volontario delle quantità immesse sul mercato (in questo caso sarà la domanda che sulla base della quantità richiesta stabilirà il prezzo di mercato). Solo in un secondo momento, ovvero trascorso il periodo di tutela brevettuale, la Società otterrà reali benefici dal consumo dei beni coperti da brevetto, in quanto si aprirà il mercato alla concorrenza, i costi di produzione scenderanno e con loro i prezzi di mercato. A questo, e con particolare riferimento ai brevetti in ambito agroalimentare, occorre evidenziare che per le nuove varietà vegetali i diritti esclusivi nascenti dal brevetto durano 15 anni dalla concessione del brevetto stesso (30 anni nel caso di piante arboree). Soprattutto in ambito agroalimentare, è facile immaginare che dopo 15 anni quella determinata varietà sarà obsoleta, sarà superata, per cui sarà sostituita da un’altra varietà che a sua volta sarà tutelata dal brevetto per altri 15 anni! E’ facilmente intuibile che in questo modo il costitutore, mediante una attenta analisi dei tempi tecnici di introduzione di nuove cultivar, sarà  in grado di mantenere il brevetto sul seme di una determinata pianta per un tempo illimitato.

Dobbiamo essere convinti del fatto che l’introduzione di Organismi Transgenici (OT) in agricoltura è fortemente correlato, se non addirittura condizionato, dalla possibilità di brevettare il risultato della manipolazione genetica; se non ci fosse il brevetto, con ogni probabilità, non ci sarebbero nemmeno OT e oggigiorno, forse, non si parlerebbe di questo argomento. Relativamente alla tutela brevettale delle innovazioni tecnologiche, ciò che lascia maggiormente perplessi è l’utilizzazione del brevetto in ambito agricolo, soprattutto nel caso in cui riguardi piante o animali di fondamentale importanza per l’alimentazione umana. Nella fattispecie, non stiamo parlando di una funzione fisiologica della quale ognuno di noi, volendo, potrebbe farne a meno; stiamo parlando di alimentazione, un’azione che bene o male ognuno di noi deve compiere obbligatoriamente almeno tre volte al giorno. Sono queste considerazioni che differenziano sostanzialmente i brevetti su materiale elettronico o su capi di abbigliamento, da quelli su piante ed animali ad uso alimentare, in quanto essi potrebbero mettere in discussione anche la sovranità alimentare di un Paese. E di questo, ovviamente, si sono accorte le grandi multinazionali del seme, che stanno facendo di tutto per ottenere il monopolio nella produzione e nella distribuzione del seme, poiché non si tratta del solo seme, ma anche di tutto ciò che è possibile trovare a monte e a valle della produzione del cibo. In particolare, alcune domande sullo sfruttamento del brevetto esigono una risposta prima di adottare piante ed animali transgenici in agricoltura:

 - esistono delle limitazioni allo sfruttamento economico del brevetto? 

- chi decide in merito alla qualità dell’alimento?

- il detentore del brevetto potrà modificare a suo piacimento le caratteristiche intrinseche del prodotto alimentare?

- come potranno essere modificate le caratteristiche nutrizionali?

- il detentore del brevetto potrà modificare a suo piacimento il legame esistente tra qualità del prodotto e luogo di produzione?

- da un punto di vista etico, sarà tutto consentito o vi saranno delle limitazioni?

In questa sede non si vuole affrontare la problematica, tutta ancora da chiarire, relativa alla liceità o meno dell’utilizzazione del brevetto per affermare un diritto privato di proprietà su piante ed animali, ma si vogliono esclusivamente evidenziare gli effetti che l’applicazione della tutela brevettuale potrebbe avere sul settore agricolo nazionale. Cosa significa "brevetto" per il settore agricolo italiano e, in particolare, quali effetti potrebbe avere per il reddito dell’agricoltore?

In primo luogo, il brevetto sulle piante e sugli animali contribuirà ad aumentare la dipendenza economica del settore agricolo nei confronti di quello industriale, in quanto l'agricoltore sarà costretto ad acquistare tutti gli anni la semente che intende coltivare o l’animale che intende allevare. Qualcuno potrebbe far rilevare che, di fatto, questo già accade per la gran parte delle sementi oggi coltivate. Vero! Nel caso degli OT, a parte la situazione di monopolio che si verrebbe a determinare, il brevetto significa qualcosa di più, in quanto l’agricoltore, oltre all’acquisto delle sementi, potrebbe essere “obbligato” ad acquistare anche la materia prima in grado di far produrre queste sementi (è il caso delle piante di soia e di mais resistenti ad uno specifico diserbante). In futuro il problema potrebbe essere amplificato dal fatto che le ditte che propongono questi nuovi organismi, per proteggersi dall’utilizzazione illecita di sementi brevettate, potrebbero inserire geni che consentono la germinazione del seme solo nel caso di contemporanea presenza di una sostanza particolare, che sarà venduta insieme alla semente. Se sarà vero poi, come ovviamente si spera, che questi nuovi organismi non avranno alcun effetto sulla salute umana e sull’ambiente, occorrerà considerare che la loro completa accettazione da parte del mercato  (presenza di una sola filiera di distribuzione, assenza di etichettatura obbligatoria dei prodotti OGM, ecc.) determinerà un forte vantaggio competitivo per le ditte sementiere, con creazione di un mercato in condizioni di monopolio o “quasi monopolio”. Si verrebbe a determinare ciò che, di fatto, è già avvenuto nei Paesi dove si registra un’accettazione incondizionata di questi nuovi alimenti: la presenza di un’unica filiera di distribuzione (per esempio per il mais significa un unico prezzo di mercato), associata ad una diminuzione dei prezzi di mercato dei prodotti transgenici, ha determinato un’esplosione delle superfici coltivate con questi nuovi organismi. In pratica, cos’è accaduto? Il minor costo di produzione delle coltivazioni transgeniche ha determinato un abbassamento dei prezzi di mercato dei relativi prodotti, siano essi transgenici e non. Pertanto, anche gli agricoltori che in un primo momento non volevano coltivare transgenico sono stati costretti a farlo dal mercato, se volevano mantenere un certo grado di redditività dall’attività agricola.

Da un punto di vista della sfruttabilità economica, il detentore del brevetto potrebbe limitarsi a richiedere il pagamento di una royalty per ogni chilogrammo di semente venduta, lasciando libertà di scelta all’agricoltore in merito alle diverse opportunità di vendita sul mercato del prodotto ottenuto. Tale somma di denaro potrebbe essere vista come il giusto compenso per colui che ha investito in ricerca e sviluppo ed è riuscito ad ottenere una pianta caratterizzata da un surplus di utilità per l’agricoltore e per il consumatore. Occorre comunque rilevare che, soprattutto nel caso in cui il mercato della semente  sia in condizioni di monopolio, a differenza di quanto precedentemente affermato, l’imposizione di una royalty sulla semente potrebbe limitare il processo di riduzione dei costi di produzione, in quanto il monopolista, con ogni probabilità, sarà portato ad aumentare il prezzo di vendita della semente di un’aliquota  prossima al maggior margine che essa sarà in grado di determinare al produttore agricolo, con annullamento dei potenziali vantaggi economici per il coltivatore e, conseguentemente, per il consumatore (in pratica se la semente transgenica determina una diminuzione dei costi di 100 €/ha, il monopolista della semente potrebbe far pagare la semente 99 € in più ed accaparrarsi tutto il vantaggio). Pertanto, il brevetto potrebbe impedire l’attesa riduzione dei prezzi di mercato dei prodotti alimentari, annullando così anche l’auspicato ampliamento delle possibilità di acquisto di cibo da parte delle classi sociali economicamente più deboli (quelle classi sociali che in molti Paesi soffrono la fame perché non dispongono del reddito necessario per acquistare il cibo).
Rispetto alla situazione precedente, il detentore del brevetto potrebbe andare oltre. In particolare, oltre a richiedere il pagamento di una royalty per ogni chilogrammo di semente venduta, potrebbe richiedere una royalty anche per ogni chilogrammo di prodotto ottenuto da quella semente. Il brevetto in questo caso porterebbe grandi vantaggi a colui che ne detiene la proprietà  e trasformerebbe l’agricoltore in un “dipendente” della stessa ditta proprietaria del seme, in quanto più l’agricoltore produce e più questa ditta guadagna.

Il detentore del brevetto potrebbe non accontentarsi  e potrebbe riservarsi anche la proprietà della produzione finale, attuando la produzione per conto proprio, sulla base di un rapporto contrattuale con l’agricoltore.  Trattasi di modalità di produzione che già avvengono in agricoltura (contratti di soccida) e che sarebbero amplificate dalla presenza di un forte ricorso al brevetto. In particolare, colui che detiene il brevetto non venderebbe la semente sul mercato e potrebbe sottoscrivere con l’agricoltore un “contratto di coltivazione”, nel quale sono indicate le epoche di semina, le modalità di coltivazione e quant’altro serve per portare a termine il processo produttivo, riservandosi la proprietà del prodotto una volta giunto a maturazione. Ovviamente per l’attività prestata l’agricoltore riceverà un compenso, che sarà commisurato all’impegno richiesto in termini di apporto di fattori della produzione (terra, lavoro, capitale). In una situazione come quella evidenziata, l’agricoltore non avrebbe alcun potere contrattuale, per cui la presenza di un unico  detentore della semente, associata al fatto che i coltivatori non sono in grado di manifestare un’unica controparte, li metterebbe tra loro in concorrenza per l’acquisizione della commessa di coltivazione.  E’ facilmente intuibile che in questa situazione si determinerebbe una tendenza verso il basso del compenso relativo allo svolgimento dell’attività agricola, in quanto, nel peggiore dei casi per la nostra agricoltura, colui che possiede il brevetto potrebbe trovare in altri Paesi migliori condizioni contrattuali per attuare il processo produttivo agricolo.

Ma il grande salto di qualità per le ditte che detengono il brevetto, potrà essere ottenuto allorquando la manipolazione genetica sulle piante consentirà di sfruttare l’”apomissia”, ovvero la possibilità di originare piante identiche alla madre anche nel caso di riproduzione sessuata. In particolare, lo sfruttamento dell’”apomissia” consentirà alle ditte sementiere  di  evitare la produzione e la successiva commercializzazione del seme, mantenendo comunque la possibilità di ricavare le royalty dal seme e dalla produzione di cibo; il seme una volta distribuito sarà annualmente prodotto autonomamente dall’azienda agricola, la quale, mediante un apposito contratto di sfruttamento della semente, sarà tenuta a pagare le royalty al detentore del brevetto, ogni qual volta utilizzerà le sementi apomittiche per una nuova semina. L’”apomissia” semplificherà notevolmente la vita al detentore del brevetto, che dovrà attuare un’unica operazione: distribuire una sola volta la semente e incassare le royalty ogni volta che il seme viene seminato ed il cibo viene prodotto. Qualcuno afferma che questo scenario è irrealizzabile, in quanto alle ditte sementiere non converrebbe mettere sul mercato una semente apomittica, poiché lieviterebbero le frodi e occorrerebbe mettere in atto un sistema di vigilanza decisamente costoso. Purtroppo queste affermazioni si scontrano con la realtà, in quanto le grandi multinazionali del seme stanno cercando di evitare questo inconveniente mediante la creazione di una “Apomissia inducibile chimicamente”. In pratica, che cosa accade? Accade che la semente apomittica germina ed origina una pianta identica alla madre solo in presenza di una sostanza chimica che sarà venduta a parte. Da rilevare che tutto questo non è fantascienza, in quanto il brevetto sull’”Apomissia inducibile” è già stato richiesto 

Il brevetto su una pianta potrebbe consentire ai Paesi che ne detengono la proprietà di attuare le coltivazioni in località prossime ai mercati di collocamento, rendendo così competitive produzioni che attualmente sono penalizzate dagli elevati costi di trasporto/commercializzazione, evitando nel contempo le problematiche ambientali che queste coltivazioni potrebbero comportare se fossero attuate sul loro territorio. Per alcune produzioni questo già avviene. Cos’è accaduto? Alcuni Paesi, vuoi perché non hanno condizioni pedoclimatiche favorevoli, vuoi perché non sarebbero concorrenziali sul nostro mercato a causa degli elevati costi di trasporto, stanno producendo sul nostro territorio su base contrattuale alcuni prodotti dei quali detengono il brevetto; tali prodotti al momento della raccolta diverranno di loro proprietà. Ecco che in questo modo qualsiasi Paese, anche senza alcuna vocazionalità produttiva, e, al limite, senza disponibilità di territorio agricolo, di strutture e di competenze agricole specifiche, potrebbe divenire un protagonista nel mercato del cibo; la produzione sarebbe attuata nel nostro Paese per conto terzi, ovvero per conto di colui che ha il brevetto del materiale di propagazione, che si approprierà del valore aggiunto di questa coltivazione.
Gli esempi precedenti, costituiscono per il nostro Paese un vantaggio o uno svantaggio? Si adattano a tutte le coltivazioni o solo a quelle brevettate? E il consumatore otterrà dei vantaggi o degli svantaggi? Occorre rispondere a queste domande prima di effettuare delle scelte che potrebbero rivelarsi controproducenti per il nostro Paese.
A conclusione di quanto precedentemente esposto, è possibile affermare che il brevetto su piante ed animali transgenici sarà in grado di sconvolgere il modo di produrre in agricoltura. Lo scenario sarà quello di un settore in cui l’agricoltore avrà perso ogni potere decisionale; egli diverrà semplicemente un fornitore di mezzi di produzione a favore di colui che detiene il brevetto di quel prodotto, che diverrà anche proprietario del cibo. Cibo che potrà essere ottenuto in ogni parte del Globo, non importa con quale materiale genetico, non importa con quale tecnica di produzione, non importa con quali tutele sociali. Tutto questo comporterà la realizzazione di un grande mercato mondiale dei prodotti alimentari, un mercato dove l’imperativo sarà produrre di tutto ovunque, ai più bassi costi possibili, per poi vendere il prodotto laddove ci sono i mezzi economici per acquistarlo.